Sono tanti i luoghi d’intesse storico e artistico dove il visitatore può perdersi fra quadri, statue e opere d’arte di valore inestimabile. Tanti angoli e luoghi dimenticati senza particolare valore artistico, ma in grado di regalare la strana sensazione di essere tornato indietro nel tempo, dove le lancette dell’orologio hanno smesso di girare e sotto la patina di oblio che li ammanta, è possibile coglierne tracce.
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venerdì 25 febbraio 2022
EL BINDELEE
EL IMPASTADOR DE AVVIS
giovedì 24 febbraio 2022
EL GAMBAREE
AREA DELLE CATTEDRALI COME ZONA MERCANTILE
Nel medioevo tutte le funzioni della vita sociale si svolgevano nelle strade, per cui anche i mercati si localizzavano lungo le vie centrali. Intorno alle chiese di S. Maria Maggiore e di S. Tecla s’insediarono a partire dal sec. X delle botteghe, dette banca e stalla, le prime mobili al contrario delle seconde. Tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII l’aspetto mercantile della zona si era rafforzato in seguito allo sviluppo demografico, economico, sociale e commerciale seguito alla Pace di Costanza del 1183.
L’area delle cattedrali consolidò il proprio carattere di cuore della città e punto di aggregazione dei traffici commerciali. La vita della basilica e del clero dipendevano dai mercati che si svolgevano nell’area circostante, di possesso del capitolo e dalla Soprastanzeria.
Dopo il rifacimento di S. Tecla sotto il portico in facciata, il Paradiso, c’era un mercato. Le botteghe e i banchi erano appoggiati alla facciata della basilica. Tra i banchi e i pilastri c’era un piccolo transito al coperto, che separava anche il mercato della polleria e della pescheria minuta. La profondità del Paradiso corrispondeva a quella di due banchi più il transito.
Il Paradiso era un luogo di sepoltura, per cui la nostra sensibilità considera veramente fuori luogo la commistione fra morte e mercato, che invece era giudicata assolutamente normale nel medioevo. Troviamo la stessa situazione di mercato nel quadriportico di S. Ambrogio o nel cimitero di S. Gabriele, tanto per fare alcuni esempi. Addossate alla facciata di S. Tecla c’erano diverse arche funebri, sotto il pavimento vi erano tombe con sopra lastre di pietra; i banchi si disponevano sopra le tombe e lasciavano libero solo un accesso alla tomba, senza suscitare alcuna perplessità.
Il diritto di esposizione era pagato a carissimo prezzo; le botteghe erano in legno e non misuravano di solito più di due metri. Vi si vendevano per lo più drappi di lana, berrette e calzature, oppure vi si potevano trovare banchi di sarti, ma non mancavano anche le bancarelle alimentari. L’insieme non era molto diverso dalla varietà che si trova oggi nella successione dei negozi in una via o nella disposizione delle bancarelle al mercato, con una maggior specializzazione.
Il coperto di S. Tecla e la Pescheria costituivano due complessi commerciali notevoli, attigui l’uno all’altro e a carattere permanente. La Pescheria si divideva in “pescheria minuta” e “pescheria grossa”. Tra le due pescherie c’erano le Drapperie ospitate in edifici di proprietà comunale. Il passaggio fra le due pescherie, che tagliava in due le drapperie, era detto “stretta dei sonagli”. La pescheria minuta era su terreno di proprietà dei decumani; vendeva gamberi e pesciolini piccoli almeno dal XII sec. La pescheria grossa vendeva pesce di taglia grossa; occupava l’area che un tempo era stata del monastero di S. Maria del Lentasio, drapperie incluse, entrata in possesso del Comune dopo la costruzione del Broletto Nuovo, ma rimasta come parrocchia col titolo del Lentasio.
Insieme alla pescheria minuta c’era il mercato dei polli, precedentemente alloggiato sulla “carrereccia”, vicino alla porta della canonica dei decumani.
Appoggiati al lato meridionale di S. Tecla almeno dal XIV sec. c’erano i banchi dei pellicciai, mercanti di pelli ovine, che ostruivano la contrada che da loro prendeva il nome, stretta tra l’isolato del Rebecchino. I banchi dei vaiari, i mercanti delle più pregiate pellicce di vaio, erano collocati nella contrada che fiancheggiava la pescheria grossa. La via proseguiva con la contrada dei berrettai, dal mercato che vi si teneva.
A nord della basilica, per tutta la sua lunghezza, era appoggiato dal XII secolo il coperto dei Borsinari, noto anche come coperto di S. Tecla, dove si vendevano borse, borsini, cinture e bottoni. La zona absidale di S. Tecla era occupata da bancarelle varie, incluse quelle del pane, di abiti usati (pataria) e per le varie riparazioni. A nord della pescheria grossa c’era la contrada della Frixaria (mercerie), ossia il mercato della passamaneria, dei nastri e delle frange. La contrada aveva botteghe a più piani, munite di portici; fra le sue bancarelle c’erano anche rivendite di formaggi e calzature.
All’interno della recinzione, tra gli edifici religiosi a nord della piazza e il complesso delle cattedrali si era formata una stradina, detta contrada del Mangano, tutta affittata a banchi di vendita, sulla quale si affacciava S. Gabriele o casa dei lettori e l'Albergo della Balestra; poco oltre incontrava a destra la via Catale (Cattedrale?) che passava tra il battistero di S. Stefano e il Duomo.
Dietro la canonica degli ordinari in via Pattari, nella zona detta “còmpito”, c’erano le “beccherie” (macellerie), rimaste nella zona fino alla costruzione del
Palazzo del Capitano di Giustizia. La loro presenza suscitò sempre reclami per i miasmi che si levavano dalle carni soprattutto nei mesi estivi, per le ossa che venivano gettate ad ostruire le cantarane (i tombini per la raccolta delle acque reflue) e per le bestie che attraversavano la navata del Duomo ancora nel Cinquecento, con giustificato disappunto dell’arcivescovo Carlo Borromeo.
L’area delle cattedrali consolidò il proprio carattere di cuore della città e punto di aggregazione dei traffici commerciali. La vita della basilica e del clero dipendevano dai mercati che si svolgevano nell’area circostante, di possesso del capitolo e dalla Soprastanzeria.
Dopo il rifacimento di S. Tecla sotto il portico in facciata, il Paradiso, c’era un mercato. Le botteghe e i banchi erano appoggiati alla facciata della basilica. Tra i banchi e i pilastri c’era un piccolo transito al coperto, che separava anche il mercato della polleria e della pescheria minuta. La profondità del Paradiso corrispondeva a quella di due banchi più il transito.
Il Paradiso era un luogo di sepoltura, per cui la nostra sensibilità considera veramente fuori luogo la commistione fra morte e mercato, che invece era giudicata assolutamente normale nel medioevo. Troviamo la stessa situazione di mercato nel quadriportico di S. Ambrogio o nel cimitero di S. Gabriele, tanto per fare alcuni esempi. Addossate alla facciata di S. Tecla c’erano diverse arche funebri, sotto il pavimento vi erano tombe con sopra lastre di pietra; i banchi si disponevano sopra le tombe e lasciavano libero solo un accesso alla tomba, senza suscitare alcuna perplessità.
Il diritto di esposizione era pagato a carissimo prezzo; le botteghe erano in legno e non misuravano di solito più di due metri. Vi si vendevano per lo più drappi di lana, berrette e calzature, oppure vi si potevano trovare banchi di sarti, ma non mancavano anche le bancarelle alimentari. L’insieme non era molto diverso dalla varietà che si trova oggi nella successione dei negozi in una via o nella disposizione delle bancarelle al mercato, con una maggior specializzazione.
Il coperto di S. Tecla e la Pescheria costituivano due complessi commerciali notevoli, attigui l’uno all’altro e a carattere permanente. La Pescheria si divideva in “pescheria minuta” e “pescheria grossa”. Tra le due pescherie c’erano le Drapperie ospitate in edifici di proprietà comunale. Il passaggio fra le due pescherie, che tagliava in due le drapperie, era detto “stretta dei sonagli”. La pescheria minuta era su terreno di proprietà dei decumani; vendeva gamberi e pesciolini piccoli almeno dal XII sec. La pescheria grossa vendeva pesce di taglia grossa; occupava l’area che un tempo era stata del monastero di S. Maria del Lentasio, drapperie incluse, entrata in possesso del Comune dopo la costruzione del Broletto Nuovo, ma rimasta come parrocchia col titolo del Lentasio.
Insieme alla pescheria minuta c’era il mercato dei polli, precedentemente alloggiato sulla “carrereccia”, vicino alla porta della canonica dei decumani.
Appoggiati al lato meridionale di S. Tecla almeno dal XIV sec. c’erano i banchi dei pellicciai, mercanti di pelli ovine, che ostruivano la contrada che da loro prendeva il nome, stretta tra l’isolato del Rebecchino. I banchi dei vaiari, i mercanti delle più pregiate pellicce di vaio, erano collocati nella contrada che fiancheggiava la pescheria grossa. La via proseguiva con la contrada dei berrettai, dal mercato che vi si teneva.
A nord della basilica, per tutta la sua lunghezza, era appoggiato dal XII secolo il coperto dei Borsinari, noto anche come coperto di S. Tecla, dove si vendevano borse, borsini, cinture e bottoni. La zona absidale di S. Tecla era occupata da bancarelle varie, incluse quelle del pane, di abiti usati (pataria) e per le varie riparazioni. A nord della pescheria grossa c’era la contrada della Frixaria (mercerie), ossia il mercato della passamaneria, dei nastri e delle frange. La contrada aveva botteghe a più piani, munite di portici; fra le sue bancarelle c’erano anche rivendite di formaggi e calzature.
All’interno della recinzione, tra gli edifici religiosi a nord della piazza e il complesso delle cattedrali si era formata una stradina, detta contrada del Mangano, tutta affittata a banchi di vendita, sulla quale si affacciava S. Gabriele o casa dei lettori e l'Albergo della Balestra; poco oltre incontrava a destra la via Catale (Cattedrale?) che passava tra il battistero di S. Stefano e il Duomo.
Dietro la canonica degli ordinari in via Pattari, nella zona detta “còmpito”, c’erano le “beccherie” (macellerie), rimaste nella zona fino alla costruzione del
Palazzo del Capitano di Giustizia. La loro presenza suscitò sempre reclami per i miasmi che si levavano dalle carni soprattutto nei mesi estivi, per le ossa che venivano gettate ad ostruire le cantarane (i tombini per la raccolta delle acque reflue) e per le bestie che attraversavano la navata del Duomo ancora nel Cinquecento, con giustificato disappunto dell’arcivescovo Carlo Borromeo.
mercoledì 23 febbraio 2022
IL MONDO DEI FACCHINI
C’era persino un vicolo a loro dedicato, in un luogo ora “alla moda”, a metà di Via Manzoni, all’altezza della Chiesa di S. Francesco di Paola.
Era chiamato così proprio per la forte presenza di trasportatori di merci, provenienti dall’area delle valli svizzere italofoni e della Val Blenio, nel Medioevo parte integrante del Ducato di Milano. La Val Blenio, è una valle interna dell’odierno Canton Ticino, confinante a ovest coi Grigioni: dal punto di vista fisico, i confini coincidono circa con lo spartiacque del Fiume Brenno (nell’alto corso) e del suo bacino idrografico, tributario del fiume Ticino. ll distretto ha avuto una grandissima importanza strategica nei tempi grazie al Passo del Lucomagno che era una delle vie preferite nei collegamenti alpini tra nord e sud, soprattutto per il trasporto delle merci. E proprio per questo, torme di gente provenienti da queste terre si riversò facilmente in città, attirata dai fiorenti commerci del libero comune di Milano prima e della capitale del Ducato poi, almeno fino alla fine del XV sec. Ancora oggi la Val di Blenio è ricca di testimonianze architettoniche romaniche, forse tra le più importanti del Ticino, a comprova di questa sua importanza strategica e alla frequenza con cui era percorsa la via di comunicazione da viandanti e pellegrini. La ridotta altitudine e la facilità di percorrenza avevano reso il passo del Lucomagno preferito rispetto ai passi vicini e dotato di una strada carrabile. E’ per questo che i Visconti furono sempre molto attenti a mantenere e ad intessere strette alleanze con i signorotti locali, ad iniziare dagli Orelli
Resta comunque il fatto che già dal XIII secolo, tuttavia, iniziò un lento declino del Lucomagno a causa di una serie di fattori: uno fra tutti la costruzione del ponte del diavolo nella via di collegamento del passo del San Gottardo, l’altra era sicuramente la nascente Confederazione Svizzera che cercava di sganciarsi dalle rotte controllate dai più potenti vicini, sia a nord (l’impero) che a sud (Milano), per privilegiare il Gottardo rispetto al Lucomagno.
Ma perché tutto questo interessamento per i facchini della Val di Blenio (o Bregn, come veniva chiamata anticamente)? La loro parlata e le loro usanze ispirarono alla metà del XVI sec., la nascita di un’ Accademia artistica, detta appunto dei Facchini della Val di Blenio, che ebbe sede proprio qui. Fu fondata nel 1560 da Giovan Ambrogio Brambilla. Ma anche Annibale Fontana e Paolo Lomazzo
furono tra i più attivi protagonisti di questo singolarissimo consesso di artisti, artigiani, musici, attori teatrali che qui presero a riunirsi. Nel 1568 lo stesso Lomazzo viene eletto “abate” e per l’occasione dipinse l’Autoritratto di Brera con i simboli dell’Accademia. I membri erano animati da questa poetica dialettale dei Rabìsch (da Arabeschi, titolo anche di una raccolta di scritti del Lomazzo del 1589), scritti in lingua ‘facchinesca’ (una sorta di dialetto ticinese simile a quello dei facchini della Val di Blenio). La loro cultura mostra tracce di dottrine proibite dalla severa censura della controriforma (il contesto ambientale era quello della Milano di Carlo Borromeo: la teologia orifica , la cabala e la magia naturale, tra cui il De Occulta Philosophia di Cornelio Agrippa di Nettesheim. Per questo, i membri furono costretti a riunirsi, in segreto, sotto le mentite spoglie di finti nomi popolareschi. La tradizione pare che ebbe seguito anche nel XVIII sec. quando da Accademia cambiò nome in “Badia”. A questi letterati appartengono le prime bosinate (un genere letterario popolare della Milano dell’inizio del XVII sec). La tradizione del genere rimarrà in auge fino all’epoca della Restaurazione austriaca, spegnendosi dopo il 1848.
E’ difficile da immaginare…Ma insieme ai facchini se n’è andato anche questo spaccato di vecchia Milano.
L'UMBRELEE
L'ombrellaio girava in bicicletta con gli arnesi da lavoro per riparare manici, stecche e la tela degli ombrelli.
L'omrellaio arrivava al grido di "Donne, è arrivato l'ombrellaio".
EL RANEE'
Risotto con le rane? Chiama el ranee!
Ciappà stanott in de la risera! Fée risott coi rann, ò donn, stasera! Prese di fresco stanotte nella risaia! Fate risotto e rane, o donne, per stasera! Grida festoso el ranee, il venditore di rane, ovvero colui che prende le rane e le vende ancora vive alle sciure in procinto di preparare un bel risottino. Quello de el ranee era un mestiere stagionale piuttosto diffuso: nella stagione favorevole si catturavano le rane nei corsi d’acqua attorno a Milano e si andava poi in città per venderle. A Milano del resto le rane erano davvero richieste e considerate anche una prelibatezza. Non mancava però qualche venditore disonesto che spacciava rospi per rane…
BRUMISTA
Il vocabolo deriva dalle carrozze "Brougham" (chiamato anche fiacre in italiano, è stato un tipo di carrozza a quattro ruote e trainata da uno o due cavalli Fu anche utilizzato dalle prime automobili, dato che il design della vettura si prestava all'installazione di un motore al posto della forza animale) vocabolo talora trascritto "Broom" e pronunciato come "Brum", da cui il sostantivo "brumista" per il relativo conducente.
Secondo altra fonte, peraltro riferita alla sola realtà lombarda da cui il termine è accreditato provenire, il termine brumista deriva dal fatto che i conducenti di carrozze pubbliche "indossando mantelli scuri, stagliavano la loro figura nella notte, come un'ombra nebbiosa e caliginosa".
Il mestiere di brumista, come quello affine di postiglione (i termini talora sono utilizzati come sinonimi), scomparve gradualmente con il diffondersi dei veicoli a motore in sostituzione di quelli trainati da cavalli.
CADREGATT
o el cadreghee
Il nome derivava da "cadréga" la definizione dialettale di sedia. All'occorrenza riparava anche le sedie, ma il suo lavoro era principalmente quello di rinnovare il piano delle sedie impagliate che all'epoca erano diffusissime e che erano sensibili all'usura. Anche lui viaggiava in bicicletta, con un sacco che conteneva il seghetto, la pialla, il martello ed un piccolo trapano. La paglia generalmente usata era quella ottenuta dalla segale. Ricordo di aver fatto in tempo a vederli diverse volte (e di essermi fermato a curiosare come facevano), seduti sui gradini che intrecciavano la paglia per rifare il sedile della sedia.
El Cadregatt o el cadreghee era il riparatore di cadreghe, cioè di sedie impagliate.
Girava in bicicletta con il necessario per riparare le sedie (pialla, martello, chiodi, sega e paglia) e tanta pazienza.
Allora le sedie erano tutte fatte a mano e a causa dell'usura era necessario di tanto in tanto farle passare nelle mani del cadregatt.
Girava per i cortili con gli attrezzi, paglia e magari un paio di sedie sulle spalle; ottenuto il lavoro, si siedeva sui gradini ed iniziava ad intrecciare la corda di paglia per ripristinare il sedile delle sedie. Colui che impaglia e' il cadregatt, colui che le vende il cadreghée. Capita ancora di vederne qualcuno in giro per la citta' Spesso ne vedo uno all' angolo di via Belfiore, davanti ad un negozio d' abbigliamento
Era un altro artigiano itinerante che portava sulla bicicletta pesanti fasci di lisca, una speciale paglia ritorta appositamente per essere intrecciata nella seduta delle sedie.
Sedeva su uno sgabello e con gesti sapienti intrecciava la paglia strettamente sino a formare un nuovo sedile.
Vederlo lavorare era un piacere, chiacchierava, si distraeva, ma le sue mani compivano il lavoro come una vera e propria macchina.
Il modo con il quale tirava il punto appena fatto era la ripetizione esatta di quello precedente e di quello successivo.
Oggi le sedute impagliate di ricambio sono costruite a macchina e sono in vendita nei supermercati ad un costo molto competitivo.
Questo ha eliminato quasi definitivamente l'attività degli impagliatori di sedie.
Girava in bicicletta con il necessario per riparare le sedie (pialla, martello, chiodi, sega e paglia) e tanta pazienza.
Allora le sedie erano tutte fatte a mano e a causa dell'usura era necessario di tanto in tanto farle passare nelle mani del cadregatt.
Girava per i cortili con gli attrezzi, paglia e magari un paio di sedie sulle spalle; ottenuto il lavoro, si siedeva sui gradini ed iniziava ad intrecciare la corda di paglia per ripristinare il sedile delle sedie. Colui che impaglia e' il cadregatt, colui che le vende il cadreghée. Capita ancora di vederne qualcuno in giro per la citta' Spesso ne vedo uno all' angolo di via Belfiore, davanti ad un negozio d' abbigliamento
Era un altro artigiano itinerante che portava sulla bicicletta pesanti fasci di lisca, una speciale paglia ritorta appositamente per essere intrecciata nella seduta delle sedie.
Sedeva su uno sgabello e con gesti sapienti intrecciava la paglia strettamente sino a formare un nuovo sedile.
Vederlo lavorare era un piacere, chiacchierava, si distraeva, ma le sue mani compivano il lavoro come una vera e propria macchina.
Il modo con il quale tirava il punto appena fatto era la ripetizione esatta di quello precedente e di quello successivo.
Oggi le sedute impagliate di ricambio sono costruite a macchina e sono in vendita nei supermercati ad un costo molto competitivo.
Questo ha eliminato quasi definitivamente l'attività degli impagliatori di sedie.
QUEL DEL LATT IN TETTA
Milano, ancora ai primi del Novecento era circondata di cascine con annessa azienda agricola funzionante, quindi l’approvvigionamento di latte non presentava certo problemi, bastava dotarsi di apposito contenitore e recarsi in una di queste cascine, la mattina presto, per acquistare la propria dose quotidiana di latte appena munto, quello vero, che faceva una panna così…
C’era anche la possibilità di servirsi dai pastori stessi che con le loro bestie frequentavano le periferie, allora prima di andare a scuola o al lavoro, si poteva mungere direttamente la propria porzione di latte di capra o di mucca, quei pastori erano detti bergamini perché spesso dalla città di Bergamo avevano la loro origine, ed ancora oggi esiste una formaggella detta proprio bergamina.
Ma, si sa, i vecchi sistemi, per quanto assicurino gusti e sapori oggi non più raggiungibili, non erano certo dei più igienici, tantomeno commercialmente convenienti, così si decise di provvedere…
Nei tempi precedenti il latte passava direttamente dal produttore al commerciante con tutti i problemi igienici che questo traffico comportava e la nuova istituzione risolse definitivamente il problema perchè già da allora era dotata di un impianto di lavorazione fra i migliori d’Europa.
Nel 1929 fu data in appalto per 20 anni alla “Societa’ Anonima Centrali del Latte, che riuniva latifondisti e grossi allevatori lombardi con l’esclusiva della vendita entro la cinta daziaria.
Scaduto il contratto nel 1950 il Comune tolse quel monopolio per esercitare in prima persona un’attenta selezione del Prodotto. Nel 1957 accanto al vecchio stabilimento entro’ in funzione il nuovo, disposto su un area di 3 ettari e mezzo in via Castelbarco.
CASTRAGAJ - CAPUNERA - CAPUNAT
Un po' difficile spiegare il significato di questa parola, comunque la professione di privare i galli degli stimoli sessuali, era svolta per lo più da donne anche se non mancavano capunat uomini.
Nei primi giorni di settembre passavano nei paesi armati dei loro ferri del mestiere, forbici ,aghi e filo, alla ricerca di galli da castrare, ovviamente non tutti ma solo quelli destinati all'ingrasso per diventare capponi di Natale.
Nei primi giorni di settembre passavano nei paesi armati dei loro ferri del mestiere, forbici ,aghi e filo, alla ricerca di galli da castrare, ovviamente non tutti ma solo quelli destinati all'ingrasso per diventare capponi di Natale.
L'operazione, cui obiettivo come già detto, era quello di privare il gallo degli stimoli sessuali, era abbastanza cruenta, consisteva nell'operare un taglio nel didietro del pennuto, estrarne tagliando i testicoli, (pudicamente detti i öf le uova) quindi ricucire il tutto con ago e filo , disinfettando poi la ferita con la cenere, per completare l'opera si tagliava al ex re del pollaio la cresta.
Posti in una apposita gabbia chiamata appunto capunera gli ex galli , almeno quelli che non morivano per l'operazione, pochi per la verità data la professionalità del chirurgo, venivano per circa tre mesi ingrassati per rallegrare le mense natalizie, solitamente dei benevoli padroni ai quali erano in maggior parte obbligatoriamente dovuti.
Il termine Capunera è rimasto nel dialetto Brianzolo come indicativo di donna energica e decisa, una che agisce rapidamente senza troppi tentennamenti ne complimenti.
Posti in una apposita gabbia chiamata appunto capunera gli ex galli , almeno quelli che non morivano per l'operazione, pochi per la verità data la professionalità del chirurgo, venivano per circa tre mesi ingrassati per rallegrare le mense natalizie, solitamente dei benevoli padroni ai quali erano in maggior parte obbligatoriamente dovuti.
Il termine Capunera è rimasto nel dialetto Brianzolo come indicativo di donna energica e decisa, una che agisce rapidamente senza troppi tentennamenti ne complimenti.
UN INEDITO ITINERARIO PER ESPLORARE LA MILANO DEI MESTIERI
E nell’area dove oggi c’è il “vuoto” di Piazza Duomo si trovava la scomparsa contrada dei Pellizzari, dove c’erano i banchi dei pellicciai, mercanti di pelli ovine, o la Piazza della Pescheria minuta (in un area localizzata pressappoco dove oggi c’è la facciata del Duomo), dove si vendevano gamberi e pesciolini piccoli almeno dal XII sec. Vi era anche una zona più prossima al lato verso l’imbocco di Via Mercanti dove si trovava la pescheria Grossa. Specularmente sull’imbocco della Via Orefici vi era la Contrada dei Vaiari per la presenza dei banchi dei conciatori di pelle di un animaletto simile allo scoiattolo, chiamato “vaio”: era talmente pregiata che i membri del colleggio dei dottori, loro più importanti clienti, per mostrare il proprio rango (spesso nobili), vestivano la toga con un bavero di vaio. Più avanti, cambiando anche le mode, gli stessi banchi e la zona limitrofa al fondo dell’attuale Piazza Duomo venne intitolata ai Profumieri, per la presenza di questi venditori.
L’adiacente via Dogana ricorda la presenza, fin dall’epoca tardo-romana, di un deposito doganale con tanto di magazzini, prossimi per altro all’area del mercato. Era luogo di taverne e mescite, che fungevano esse stesse da cantine e magazzini, divenendo col tempo anche piccoli empori. Il tracciato di origine romano e poi medioevale, univa storicamente la Via Orefici, (chiamata così per la presenza capillare, ancora oggi, di laboratori di metalli preziosi) e aveva un andamento parallelo all’attuale Via Speronari. Anche questa arteria viene sacrificata per l’apertura della Via Mazzini, e la costruzione dei Portici meridionali di Piazza Duomo (quelli verso Piazza Diaz per capirci). Nel XIX sec. numerose erano le attività legate alle passamanerie e ai ricami. Ma vi era anche la Casa fondata da Antonio Monzino verso il 1750, con l’insegna della Sirena. In questo laboratorio per la fabbricazione di strumenti musicali di pregevole fattura, prese corpo anche una collezione oggi raccolta nel Museo degli strumenti musicali di Piazza Castello.
Della vicina via dei Cappellari (ancora esistente, e già detta Contrada dei Berrettai), Basta dire che correva, ben più lunga, nel cuore di un quartiere, il Rebecchino, demolito per allargare la Piazza del Duomo sul lato dei Portici Meridionali . Qui all’angolo, con la Contrada dei Mercanti d’oro vi era la sede della Credenza di S. Ambrogio, una sorta di Camera di Commercio di oggi. La via prende il nome naturalmente dalla presenza di artigiani impegnati nella fabbricazione dei copricapo, qui operanti fin dal Quattrocento con l’introduzione, in un primo tempo, del cappello con la tesa e poi come oggetto di moda, con l’epoca spagnola. La via come la corporazione aveva un patrono S. Giacomo sempre raffigurato col cappello, simbolo delle peregrinazioni da lui compiute. In realtà già a metà del XIX sec., non ci sono più solo le attività dei berrettai ma anche colorifici, passamanerie, una drogheria con fabbrica di cioccolato, caffè, l’albergo Metropol già Hotel Germania, alcune pensioni e diverse pasticcerie, compresa quelle detta la Befana. La via terminava dove oggi c’è S. Satiro, col nome di Via Cappello, poiché anche qui vi erano presenti parecchi mercanti del ramo tessile, con attività risalenti anche al XVII sec. e altre pasticcerie tra cui quella del Cappello, frequentata da parecchi patrioti e artisti, che preparava anche il famoso Caffè della Peppina dal nome della moglie titolare del Biffi .
Poco più avanti superata la già citata Via Speronari (che prendeva invece il nome dalle botteghe che, durante il Rinascimento, producevano e commerciavano, bardature e finimenti per cavalli, ma anche elmi), si arrivava alla Via Spadari. Questa prende il nome dalle botteghe che producevano e commerciavano in armi bianche, la cui Corporazione era detta anche Catenaglia per via della lavorazione del ferro. Le fabbriche d’armi avevano reso Milano famosa e, a detta dello storico Galvano Fiamma nel XIV sec., persino Tartari e saraceni cercavano le armi lombarde. Fino al Cinquecento, qui si fabbricavano i migliori usberghi ed armi offensive e difensive. Se ne faceva traffico in tutta Europa, facendo anche da rappresentanti delle armerie della Val Trompia. Qui si impiantarono nel XV sec., ad esempio le famose botteghe dei Missaglia, che foraggiavano di spade e corazze tutta la corte prima viscontea e poi sforzesca. Divennero ben presto i fabbricanti di armature più conosciuti nel ducato.
la vicina Contrada dei Pennacchiari, primo tratto dell’attuale Via Torino, fino all’angolo con Via Spadari. Prende il nome da coloro che commerciavano in piume, che erano legati all’industria dei copricapi militari.
Sempre non lontano, al termine della citata via Spadari vi è via Armorari, oggi conosciuta per il mercatino domenicale, sul retro del Cordusio, per i collezionisti di numismatica e filatelia. Prende il nome dalle innumerevoli botteghe e officine che anche qui producevano e commerciavano in armi.
Nel passaggio tra via Orefici e via Mercanti, vi era poi la Contrada dei Fustagnari. Prendeva il nome dalle fabbriche delle stoffe di questo materiale che erano fiorite a Milano accanto a quelle dei panni di lana e producevano fustagno alto e basso. Quando nei primi anni ’60 l’isolato di collegamento venne abbattuto, il toponimo del vicolo sparì proprio con la realizzazione del nuovo palazzo, sostituito dalla galleria che raccorda via Orefici con via Mercanti. I proprietari del palazzo si opposero alla richiesta del Comune di attribuire l’antica denominazione per cui il passaggio è rimasto senza nome. Peraltro, la funzione evocata dal toponimo medioevale sopravviveva ancora nel secondo dopoguerra: nel 1956 la ditta Guenzati (qui attiva dal 1768) che teneva in magazzino sino a 30 mila metri di fustagni e velluti, serviva la Lancia e l’Alfa Romeo per la realizzazione dei sedili delle auto.
Non si può non terminare il nostro giro con la Piazza dei Mercanti, che fino al XIX sec. oltre a essere luogo di scambi era teatro della Piera degli O Bej O Bej (termine che di per se stesso esprime la meraviglie degli avventori verso quello che veniva presentato sui banchi di vendita). Nel Medioevo, il Broletto comunicava con l’esterno tramite cinque porte che portavano verso i vari sestieri di Milano. Rappresentava il centro cittadino, dove ci si incontrava e mercanteggiava, ci si divertiva e si facevano affari. L’importanza di questo luogo per i commerci cittadini è testimoniato, fin dai tempi più remoti, da una serie di realtà: vi erano i depositi del sale, alimento tenuto in grande valore e per questo qui ben custodito; dal 1559 viene aperto qui un ufficio della posta di Stato, gestito dalla famiglia bergamasca Tassi, che aveva una fitta rete di sedi in tutta Europa. Nel 1593 viene istituito qui il Banco di Sant’Ambrogio, istituto di credito costituito con denari dei cittadini laici e religiosi. Si tratta della più antica istituzione creditizia in Milano. Vi era anche la Pietra dei Falliti, di cui è costituito il pozzo in centro alla piazza. Inoltre ancora nell’Ottocento, accanto alla Loggia degli Osii, dove vi era la Camera di Commercio, vi era un porticato chiuso da altissime inferriate dove si eseguivano le vendite giudiziali, la Ferrada, tanto che nel dialetto milanese si usava dire anda’ a la Ferrada, nel senso di essere venduto per autorità pubblica, cioè fallire. Inoltre sempre sulla piazza affacciava il Palazzo delle Ipoteche (oggi scomparso).
lunedì 21 febbraio 2022
EL LAMPIONÉE
o el lampedee
Lo so che nella vostra opulenta società del benessere, ma sarà proprio così?, il mio lavoro non esiste più, resta però il fatto che un tempo eravamo in molti a esercitare questa attività. Adesso se me lo permettete, vi racconto un po' del nostro lavoro, così, tanto perché possiate apprezzare meglio ciò che avete oggi.
Le mie mansioni erano quelle di pizzà e smorzà i lampiòn, specifico per i non milanesi, accendere e spegnere i lampioni, che funzionavano a òli e a gas, lungo le vie e nelle piazze della città.
Non tutta la città per la verità, ma solo le vie più rinomate, del centro cittadino dove risiedevano i sciòr, i palazzi importanti e della politica, chi abitava nelle periferie facevano a meno di uscire di casa, oppure uscivano a lume di candela o, chi la possedeva, con una lampada a olio, ma, diciamola tutta, dove volete che poteva andare la povera gente, che magari si doveva alzare alla mattina molto presto per recarsi sul posto di lavoro a guadagnarsi la pagnotta? Se si vedeva qualche nottambulo o era un ubriacone, una prostituta o qualcuno del malaffare, e se ve lo dice il Luis, ghé de fidàss.
Quando suonava l'Ave Maria si chiudevano le porte della città e, con l'arrivo dell'oscurità iniziava il coprifuoco, che era l'antica usanza per cui, a una certa ora della sera, bisognava coprire il fuoco nel camino con la cenere per evitare incendi, da questo fatto deriva il divieto, per la popolazione, che da una certa ora, non si doveva uscire di casa. Mi no, l'è facil capì! Se me metti a cuntà sù tutt quell che ho vist, ve se drizza i cavei in còo. Ma ve'l racconti la prossima volta.
La manutenzione, l'accensione e lo spegnimento delle lampade erano affidate a noi lampionari. Appena arrivava la calada dè'l sòl, me casciavi la scala su i spall, prendevo la mia asta, quella che aveva in punta un materiale infiammabile, e iniziavo a il mio lavoro, passando di lampione in lampione, sperando che tutto funzionasse al meglio. Fioeu, ne ho fatta di strada, soo nanca mi quant chilometri gh'hoo fàa! Quand che 'l sòl el rivava ancamò, riprendevo il giro e, munito di un'asta che sulla punta portava un cono di metallo, a forma di pedrioeù inversàa, spegnevo il lume. Per fav capì, l'è lo spegnimoccolo, quell che drovava el segrista per smorzà i candel.
Quest l'era el me fattùra, bèll o brùtt, l'era quest. Però ho savùu che nel racconto di un libro, precisamente il Piccolo Principe, un protagonista è proprio un lampionaio, beh, l'è propi ona soddisfazion!
Adess che ho smorzàa tucc i lampion voo a ca' a dormì e a requià i me pèe stracch.
domenica 20 febbraio 2022
EL SPAZZACAMIN
o El menafrecc
girava per il quartiere gridando “mena frecc!”
L'antico mestiere dello spazzacamino era nata dall'esigenza di pulire le canne fumarie dalla fuligine.
Lo spazzacamino di solito era un ragazzotto minuto per entrare negli angusti camini ed aveva sempre il viso nero dalla fuligine.
Questo antico mestiere non è scomparso ma sono totalmente cambiate le modalità di lavoro.
Lo spazzacamino di solito era un ragazzotto minuto per entrare negli angusti camini ed aveva sempre il viso nero dalla fuligine.
Questo antico mestiere non è scomparso ma sono totalmente cambiate le modalità di lavoro.
Canzone popolare milanese sul mestiere dello spazzacamino:
Su e giù per le contrade
Di qua e di là si sente
‘na voce allegramente
‘riva el spazzacamin !
Di qua e di là si sente
‘na voce allegramente
‘riva el spazzacamin !
S’affaccia a la finestra
La bella signorina
Con voce graziosina
Ciama el spazzacamin
La bella signorina
Con voce graziosina
Ciama el spazzacamin
Prima lo fa entrare
E poi lo fa sedere
Gli dà mangiare e bere
Per poi spazzà el camin
E poi lo fa sedere
Gli dà mangiare e bere
Per poi spazzà el camin
E dopo aver mangiato
Mangiato e ben bevuto
Gli fa vedere il buco
Il buco del camin
Mangiato e ben bevuto
Gli fa vedere il buco
Il buco del camin
E quel che mi rincresce
O caro giovinetto
Che il mio camin l’è stretto
Com’ el farà a passar ?
O caro giovinetto
Che il mio camin l’è stretto
Com’ el farà a passar ?
Non dubitar signora
Son vecchio del mestiere
So fare il mio dovere
Su e giù per il camin
Son vecchio del mestiere
So fare il mio dovere
Su e giù per il camin
E dopo quattro mesi
La luna va crescendo
La gente va dicendo
L’è lo spazzacamin
La luna va crescendo
La gente va dicendo
L’è lo spazzacamin
E dopo nove mesi
È nato un bel bambino
Che somigliava tutto
A lo spazzacamin.
È nato un bel bambino
Che somigliava tutto
A lo spazzacamin.
giovedì 17 febbraio 2022
IL FACCHINO
C’era persino un vicolo a loro dedicato, in un luogo ora “alla moda”, a metà di Via Manzoni, all’altezza della Chiesa di S. Francesco di Paola.
Era chiamato così proprio per la forte presenza di trasportatori di merci, provenienti dall’area delle valli svizzere italofoni e della Val Blenio, nel Medioevo parte integrante del Ducato di Milano. La Val Blenio, è una valle interna dell’odierno Canton Ticino, confinante a ovest coi Grigioni: dal punto di vista fisico, i confini coincidono circa con lo spartiacque del Fiume Brenno (nell’alto corso) e del suo bacino idrografico, tributario del fiume Ticino. ll distretto ha avuto una grandissima importanza strategica nei tempi grazie al Passo del Lucomagno che era una delle vie preferite nei collegamenti alpini tra nord e sud, soprattutto per il trasporto delle merci. E proprio per questo, torme di gente provenienti da queste terre si riversò facilmente in città, attirata dai fiorenti commerci del libero comune di Milano prima e della capitale del Ducato poi, almeno fino alla fine del XV sec. Ancora oggi la Val di Blenio è ricca di testimonianze architettoniche romaniche, forse tra le più importanti del Ticino, a comprova di questa sua importanza strategica e alla frequenza con cui era percorsa la via di comunicazione da viandanti e pellegrini. La ridotta altitudine e la facilità di percorrenza avevano reso il passo del Lucomagno preferito rispetto ai passi vicini e dotato di una strada carrabile. E’ per questo che i Visconti furono sempre molto attenti a mantenere e ad intessere strette alleanze con i signorotti locali, ad iniziare dagli Orelli
Resta comunque il fatto che già dal XIII secolo, tuttavia, iniziò un lento declino del Lucomagno a causa di una serie di fattori: uno fra tutti la costruzione del ponte del diavolo nella via di collegamento del passo del San Gottardo, l’altra era sicuramente la nascente Confederazione Svizzera che cercava di sganciarsi dalle rotte controllate dai più potenti vicini, sia a nord (l’impero) che a sud (Milano), per privilegiare il Gottardo rispetto al Lucomagno.
Ma perché tutto questo interessamento per i facchini della Val di Blenio (o Bregn, come veniva chiamata anticamente)? La loro parlata e le loro usanze ispirarono alla metà del XVI sec., la nascita di un’ Accademia artistica, detta appunto dei Facchini della Val di Blenio, che ebbe sede proprio qui. Fu fondata nel 1560 da Giovan Ambrogio Brambilla. Ma anche Annibale Fontana e Paolo Lomazzo
furono tra i più attivi protagonisti di questo singolarissimo consesso di artisti, artigiani, musici, attori teatrali che qui presero a riunirsi. Nel 1568 lo stesso Lomazzo viene eletto “abate” e per l’occasione dipinse l’Autoritratto di Brera con i simboli dell’Accademia. I membri erano animati da questa poetica dialettale dei Rabìsch (da Arabeschi, titolo anche di una raccolta di scritti del Lomazzo del 1589), scritti in lingua ‘facchinesca’ (una sorta di dialetto ticinese simile a quello dei facchini della Val di Blenio). La loro cultura mostra tracce di dottrine proibite dalla severa censura della controriforma (il contesto ambientale era quello della Milano di Carlo Borromeo: la teologia orifica , la cabala e la magia naturale, tra cui il De Occulta Philosophia di Cornelio Agrippa di Nettesheim. Per questo, i membri furono costretti a riunirsi, in segreto, sotto le mentite spoglie di finti nomi popolareschi. La tradizione pare che ebbe seguito anche nel XVIII sec. quando da Accademia cambiò nome in “Badia”. A questi letterati appartengono le prime bosinate (un genere letterario popolare della Milano dell’inizio del XVII sec). La tradizione del genere rimarrà in auge fino all’epoca della Restaurazione austriaca, spegnendosi dopo il 1848.
IL MORNEE
EL MAGNÀN O RAMÉE
Possedevo una piccola bottega lungo il Naviglio abbastanza isolata da altre abitazioni poiché, col mio lavoro, producevo un po' di rumore, insomma, fasevi on po' de frecàss, che, a lungo andare, metteva a dura prova le oregge de quei che abitaven visin. E si perchè pinsa, tenaja, s'cesora e martell erano gli strumenti del mio operare, e soprattutto con quest'ultimo quando dovevo martellare con vigore per modellare il pezzo di rame, ne fasevi de fracàss; pim, pum, pam, picchia di qua, aggiusta di là, e sotto e sopra, osservare bene se la forma è giusta... un lavoro faticoso, e non solo da artesan, ma anca de artista.
Sbaglià no a dare il giusto spessore che doveva essere uniforme, precision nelle rifiniture, forma graziada e che contenta l'oeucc, altrimenti si salvi chi può dalle resgiore!
Una pentola di rame era preziosa, le si portavano persino in dote. Quello però che più mi dava soddisfazione, era costruire un pairoeu, per gli extra meneghini, paiolo, per la polenta, fatto di rame non stagnato e con un fondo concavo che andava a restringersi. Necessitàa vèss bòn a fall, altrimenti addio polenta!
Quando entravo in una cucina e vedevo esposte, a volte sora el camin a volte taccàa sora el mur i mie pignatte, l'era ona soddisfazion e me disevi: guarda Pietro, ammira el tò lavorà d'artista! Me sentivi ripagato de tutta la fadiga fada.
Con me c'è anche el me fioeù, el Ginetto. El gh'ha appena tredes ann, ma gli insegno il mestiere, perché così, un domani avrà di che riempirsi el stomegh, anche se ho l'impressione che è un mestiere che non si farà più, però, per adess, el se fa ancamò, quindi, Ginetto dagh sott, ciappa sù la voeuja e mettes a comincià. Le sciore della buona borghesia vogliono le pentole in ramm, belle, lustre come on specc. Dico la borghesia perchè la povera gent, per fa de mangià la dovrava el legn, cretta, l'allumini, el ramml'era ona scioraria che se podeven minga permett. È sempre la solita storia da che mondo e mondo, chi troppo e chi niente. Per fortuna che c'è il rame che mi permette di mangiare e di mantenere la famiglia, altrimenti , in del stomegh se vedaria la ragnera. Adess però basta cinquantà e mettiamoci al lavoro, su da bravo Gigetto, che puoi superare il maestro!
Ho, me raccomandi, quand che ve capita de vedè quaj pignatta de ramm, pensè a mi, a la mia fadiga de magnan.
IL CIAPARATT
Va a ciappà i ratt, in dialetto milanese, significa: togliti dai piedi e, se proprio non sai cosa fare, vai a cacciare i topi!
Questa espressione tornò di moda nel 1929, quando a Milano fu organizzata un’importante e molto pubblicizzata operazione di derattizzazione.
Il numero di roditori che infestavano la città e che mettevano a rischio di tifo murino i milanesi era talmente alto che vennero messi addirittura in palio premi in denaro per incoraggiare la gente a catturare i ratt.
Da lì l’espressione deratizzare e la più professionale sfumatura del significato del detto: se per far denaro non sai fare altro, vai almeno alla caccia dei topi!
mercoledì 16 febbraio 2022
IL MESTIERE DEL LAVARE
Ancora nel secondo dopoguerra il bucato nelle campagne veniva fatto con la cenere; la biancheria veniva prima bagnata e insaponata quindi immessa entro una tinozza di legno sollevata da terra e con un buco sul fondo al di sotto della quale era posto un piccolo mastello; l'operazione di lisciviatura consisteva nel versare una certa quantità di cenere e acqua bollente sopra uno spesso panno che ricopriva la biancheria nella tinozza. La liscivia, che lentamente colava dentro il mastello, veniva recuperata per lavare capi molto sporchi o colorati; i panni una volta estratti dalla tinozza venivano portati ai lavatoi o ai corsi d'acqua per essere risciacquati. Le diverse azioni di insaponatura, sfregatura e detersione delle macchie necessitavano di un piano rigido su cui operare: asse e cavalletto, parapetto in muratura nella vasca dei lavatoi, un grosso sasso nel caso di un corso d'acqua.
Il duro lavoro del lavare rimase fino a non molti decenni fa un atto collettivo strettamente collegato al mondo femminile. Nell'800 alle singole lavandaie che si recavano di casa in casa per fare il bucato si affiancò il lavandaio il quale ritirava la biancheria a domicilio avvalendosi di un carretto piatto trainato da cavalli. Fino a quando l'acqua non fu portata direttamente nelle case la sovrattassa prevista attorno al 1930 per la sua introduzione nelle abitazioni faceva ancora affollare i lavatoi pubblici.
Fare il bucato significava trovare un luogo dove l'acqua fosse presente in abbondanza; per gli abitanti della città i luoghi deputati erano i canali e le fontane, persino quelle ornamentali (questo avveniva, nonostante i divieti delle autorità). Fin prima del '700 i lavatoi lungo i canali erano pubblici e disponibili a turni ed in uso gratuito oppure riservati a gruppi di famiglie; negli anni '30 a Milano le lavandaie si recavano ancora al naviglio.
In Gorla conosciute erano le lavanderie di Mariani Dionigi (nuova costruzione del 1913 composta da lavanderia e rustici), della Cascina Faiperina, della lavanderia del Pirovano situata al “Cantun Frecc” (via Finzi 25).
La pulizia del corpo dei Milanesi era in origine affidata alla cosiddetta “pulizia secca”, demandata cioè al cambio della biancheria; i frequenti cambi di abito, soprattutto degli indumenti bianchi, incrementavano il lavaggio a carico delle lavandaie.
L’eleganza e la moda si associavano all’igiene personale: si lavavano perciò più gli indumenti che le persone e questa usanza era poco frequente tra chi di indumenti non ne aveva abbastanza.
“Anziché abbattere il coperto del Figini o ampliare la piazza del Duomo – raccomandava lo storico Cesare Cantù – preferirei vedere costruiti i lavatoi, dove il pezzente potesse andare, torsi di dosso l’unica camicia e gli unici calzoni, vederli risciacquati, lisciati lì per lì, e rimetterseli partendo con la spesa di un soldo”.
I molti lavatoi costruiti lungo i Navigli, fuori dalla cerchia interna, servivano la città e i nuclei rurali da dove provenivano le lavandaie al servizio delle famiglie Milanesi.
I cambi d’abito erano molto frequenti soprattutto nella stagione estiva.
L’attività della lavandaie, costrette a lavare carponi “in posizione cioè incomoda senza alcuna difesa dall’inclemenza delle stagioni”, cresceva con l’aumento della popolazione di Milano e del contado.
Tra le mani delle donne che sciacquavano, strizzavano, sbattevano e coprivano di cenere gli abiti per la cosiddetta “imbiancatura”, non passavano semplici indumenti, ma anche la credibilità dei governanti di Milano: una grande responsabilità per le lavandaie, che conoscevano tutti i metodi ( “l’olio di gomito”) per restituirle al massimo del candore.
Tra gli “ingredienti” più importanti del bucato erano utilizzati acqua corrente – quella dei canali milanesi – e un’energica sbattitura su una tavola di legno – il “brellin”. Nei casi più delicati si macerava preventivamente per 24 ore la biancheria con un misterioso impasto di escrementi di vacca e di bue e l’aggiunta di liscivia. Il sapone non esisteva e veniva sostituito di frequente da cenere e acqua bollente versate sopra un panno chiamato “ceneracciolo” disposto sopra i panni.
Nel frattempo la moda diventava sempre più ricercata e orientata verso il lusso: la vera novità della moda femminile – non visibile al pubblico – arrivava nel campo della lingerie, come attesta nel 1581 in un suo memoriale di protesta contro il lusso G.A. Trivulzio, che proponeva di limitare l’uso degli ziponi a un bustino di tela “tanto per tener suso li calzoni per chi li porta” e di proibire alle donne di portare calzoni di tanta spesa (le mutande) “ come dicesi che facciano”.
Allora fare il bagno non era comunque un’abitudine molto diffusa.
Tuttavia, la cultura rinnovatrice investiva anche la cura del corpo, per la quale alla pulizia secca si sostituì quella bagnata.
Sono del Settecento immagini di donne intente a lavarsi, anche le parti intime, grazie ad un esclusivo strumento, che fa la sua comparsa in Francia, il bidet. Un segno dei tempi.
Con la rivoluzione francese e la presa di coscienza, comune a tutti gli strati sociali, della necessità dell’igiene per combattere microbi e mortalità, l’acqua per lavarsi diventava indispensabile insieme al sapone, una tappa fondamentale sulla via della costruzione dei bagni e dei lavatoi pubblici, che avverrà a Milano più tardi, agli inizi del Novecento.
Dentro la città di Milano erano presenti 19 lavatoi: 11 sono sul Naviglio Grande; 3 sono sul Naviglio della Martesana; 5 sono sul Naviglio di Pavia. I materiali utilizzati per la costruzione dei lavatoi sono la pietra, il legno e il cemento.
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