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giovedì 10 marzo 2022

BARABITT

 Il “barabitt” come sinonimo di bambino discolo, dispettoso. Per il bimbo monello additato di qualche marachella si usava dire te mandi in di barabitt, a significare “ti spedisco in collegio”. Pare che il nome dialettale derivasse, non tanto da Barnaba come qualcuno era portato a pensare, essendo la loro sede nel XIX sec., presso i cortili quattrocenteschi in via S. Barnaba, ma da Barabba. Si, proprio il furfante che Cristo aveva sostituito sulla croce, per volere del popolo di Gerusalemme. Perché questo oscuro nome per dei semplici bambini poco fortunati? Il Marchiondi, finito dalla fine del XIX sec., al Quadronno, era una sorta di riformatorio, il luogo per l’educazione dei minorenni traviati, o meglio ancora come recita la sua ragione sociale, l’istituto per la protezione del fanciullo.

martedì 1 marzo 2022

SENZA ALCUN VALORE

Per indicare una cosa senza alcun valore si usava un tempo l'espressione: "Acqua de bellegott", acqua di castagne secche vendute cotte.

mercoledì 23 febbraio 2022

OFELÈ FA EL TO MESTÉ!

Ofelè fa el to mesté! Pasticcere fa il tuo mestiere! Recita un vecchio detto milanese ancora in uso in Lombardia. Quasi un monito a chi si improvvisa esperto e cerca di fare ciò che non è poco o per niente in grado di fare.

sabato 1 gennaio 2022

SCAPPA CH'EL RIVA EL DONDINA

 

Intorno al 1850, il delegato sig. Mazza era capo della squadra della Polizia volante milanese, prima sotto l'Austria, poi sotto il Regno e per il suo modo di camminare tutto dondolante era meglio noto come el Dondina.

Era un poliziotto formidabile, terrore della malavita. Dove arrivava lui i malviventi fuggivano.

Ai ragazzini si diceva questa frase intendendo "scappa che arriva i lupo".


I TEMP DE CARLO CODEGA

 

Modo di dire che definisce un periodo molto vecchio, quando c'era Carlo Codega.

Milano nel 700 era una città poco illuminata, e i nobili ed i ricchi, quando andavano in giro con il buio, si facevano precedere da un servo munito di lanterna detta "codega" per la funzione che svolgeva.

Sembra infatti che tale nome derivi dal greco "odegos" cioè guida, ed anche in tempi più recenti codega era il nomignolo che veniva dato ai fattorini muniti di ombrello addetti ad accogliere i clienti quando pioveva.

Lo stesso nome era usato anche per coloro i quali riaccompagnavano le ragazze a casa dopo gli spettacoli o altro.

giovedì 30 dicembre 2021

FINI' CONT EL CU PER TERRA

finì cont el cü per tèrra” per definire un’impresa economica  finita male. Questo detto deriva dalla Pietra dei falliti. fUn uso medievale di costringere i falliti a battere a sedere nudo, in pubblico, per tre volte su di una pietra di granito nero che si trovava in piazza Mercanti.

FA' MINGA EL BOGIA

 

Fa’ minga el Bogia per indicare come dietro una apparente bontà, si possano celare, invece, animo perverso e azioni malvagie. Detto che proviene  dalla storia di via Bagnera


martedì 28 dicembre 2021

TEPPA


Cripto - #cripto Teppista ‹tep·pì·sta› s.m. e f. (pl.m. -i) "Malvivente,  dedito ad atti di violenza o di vandalismo: una banda di teppisti". La  parola teppista deriva dal nome della Compagnia dellaVi hanno mai detto “sei una teppa”? 

La Compagnia della Tèppa ebbe vita molto breve (1817 – 1821). Formavano il gruppo ragazzacci di buona famiglia, una specie di teddy boys che, tollerati e protetti dalle autorità, si divertivano a combinar bravate goliardiche. Fra i loro passatempi più comuni vi era quello di prendere a randellate (di notte) i malcapitati passanti, con un bastone nodoso che chiamavano “pagadèbit” (pagadebiti), oppure tormentare le signorine sdegnose. Una volta se la presero anche con le autorità asburgiche: buttarono nel Naviglio di via Senato una garitta con la guardia dentro.

Con il ritorno degli austriaci a Milano, ritorna la severità e l'austerità nei costumi; a contrastare questo clima nasce la Compagnia della Tèppa. Oggi i termini: tèppa, teppista, teppismo, sono sinonimi di: balordi, vandali, scapestrati, malviventi eccetera.

Per i milanesi del tempo la tèppa (muschio) era quella zona verde ed umida (prati e muschio) che circondava la parte nord del Castello Sforzesco dove erano soliti incontrarsi i Teppisti.

La Compagnia deve il suo nome alla scapigliatura del cappello tricorno, tipico dei teppisti, che era di felpa plumée, ma, di qualunque colore fosse la stoffa, doveva essere di pelo lungo e arruffato, proprio come la tèppa (il muschio).

La Compagnia della Tèppa era solita tenere le sue riunioni in caffè o alberghi della città e, come succedeva per le Accademie, ebbe il suo ricco patrono che soprannominò il Barone Contempo. Questi aveva preso in affitto la famosa Villa Simonetta e lì teneva le riunioni e le feste e fu lì che nel 1821 vennero commessi degli eccessi che fecero “traboccare il vaso” e decretare lo scioglimento della famigerata Compagnia.

villa Simonetta avevano preso “sede” i giovanotti di sangue nobile dediti alle attività più disparate, ma estranee al divertimento, i Teppisti organizzarono una sorta di orgia alla quale furono costretti a partecipare dodici perfidi nani ed altrettante giovani dame dell'alta borghesia, naturalmente queste ignare del loro destino. Le ragazze furono sequestrate per due giorni e costrette ad unirsi ai nani al solo scopo di prendersene beffa. Questi erano appunto la compagnia della Teppa e, visto l’andazzo, qualcuno comincia a chiamare l’antica e prestigiosa residenza “La villa dei balabiott”. 

Altro personaggio da collegare alla Compagnia fu un certo Bichinkommer, originario della Svizzera; ma italiano a tutti gli effetti; nato a Milano, persona facoltosa, di grande ingegno, abilissimo incisore: odiava in modo feroce l'Austria e gli austriaci. Beh anche costui ne combinò più di Bertoldo fino a diventare il punto di riferimento della Compagnia e si dice addirittura che fu l'artefice della trasformazione della stessa in Società Segreta ed alcuni storici la considerarono l'inizio della Carboneria.

giovedì 11 novembre 2021

DIALETTO MILANESE

 La preghiera del Padre nostro in dialetto milanese, che si trova presso la chiesa del Pater Noster, a Gerusalemme

Il dialetto milanese è un dialetto appartenente al ramo occidentale della lingua lombarda, parlato tradizionalmente a Milano. È detto anche meneghino, dal nome della maschera milanese Meneghino (o Meneghin).

Come tutti i dialetti della lingua lombarda, anche il milanese appartiene al ramo gallo-italico delle lingue romanze occidentali, caratterizzato da un substrato celtico e da un superstrato longobardo.

Un esempio di testo in antico dialetto milanese è questo stralcio de Il falso filosofo (1698), atto III, scena XIV, dove Meneghino, personaggio del teatro milanese divenuto poi maschera della commedia dell'arte, si presenta in tribunale:

LMO)

«E mì interrogatus ghe responditt.
Sont Meneghin Tandœuggia,
Ciamæ par sora nomm el Tananan,
Del condamm Marchionn ditt el Sginsgiva;
Sont servitor del sior Pomponi Gonz,
C'al è trent agn che'l servj»


(IT)

«E io interrogatus risposi:
Sono Meneghino Babbeo
chiamato per soprannome il Ciampichino
del fu Marchionne detto il Gengiva;
sono servitore del signor Pomponio Gonzo
che servo da trent'anni»


Il XVII secolo vide affermarsi anche la figura del drammaturgo Carlo Maria Maggi, che normalizzò la grafia del dialetto milanese e che creò, tra l'altro, la maschera milanese di Meneghino. La letteratura milanese nel XVIII secolo ebbe un forte sviluppo: emersero alcuni nomi di rilievo, come Carl'Antonio Tanzi e Domenico Balestrieri, a cui si associarono una serie di figure minori tra cui possiamo elencare, in area milanese, Giuseppe Bertani, Girolamo Birago e Francesco Girolamo Corio.

È di questo periodo la scomparsa del tempo verbale che in italiano corrisponde al passato remoto, che è caduto in disuso nel tardo Settecento. Al suo posto è usato il perfetto: "un mese fa andai" si dice un mes fa son andaa. Nel corso dei secoli scomparve anche il suono dh, che era invece presente nel dialetto milanese antico. Esso si trova, tra gli altri, nei vocaboli antichi milanesi doradha (it. "dorata"), crudho (it. "persona brusca"), mudha (it. "cambia") e ornadha (it. "ornata").

La produzione poetica milanese assunse dimensioni così importanti che nel 1815 lo studioso Francesco Cherubini diede alle stampe un'antologia della letteratura lombarda in quattro volumi, che comprendeva testi scritti dal XVII secolo ai suoi giorni. L'inizio del XIX secolo fu dominato dalla figura di Carlo Porta, riconosciuto da molti come il più importante autore della letteratura milanese, anche inserito tra i più grandi poeti della letteratura nazionale italiana. Con lui si raggiunsero alcune delle più alte vette dell'espressività in lingua milanese, che emersero chiaramente in opere come La Ninetta del VerzeeDesgrazzi de Giovannin BongeeLa guerra di pret e Lament del Marchionn de gamb avert.

A partire dal XIX secolo la lingua lombarda, e con essa il dialetto milanese, ha iniziato a subire un processo di italianizzazione, ovvero un mutamento che ha portato gradualmente il suo lessico, la sua fonologia, la sua morfologia e la sua sintassi ad avvicinarsi a quelle della lingua italiana. Dopo l'unità d'Italia (1861) la lingua italiana iniziò a diffondersi anche tra la popolazione affiancandosi, come idioma parlato, alla preesistente dialetto milanese generando un cosiddetto "contatto linguistico". Non fu un caso che il processo tra le due lingue portò all'italianizzazione del dialetto milaense e non al suo opposto: in sociolinguistica è infatti sempre l'idioma "gerarchicamente" più debole che si conforma a quello dominante. Esempi di italianizzazione del dialetto milanese, che si riscontrarono per la prima volta in due vocabolari di questo idioma editi, rispettivamente, nel 1839 e nel 1897, sono il passaggio da becchée a macelâr per esprimere il concetto di "macellaio", da bonaman a mancia per "mancia", da tegnöra a pipistrèl per "pipistrello" e da erbiùn a pisèi per "piselli".

La lingua lombarda, e con essa il dialetto milanese, potrebbe essere ritenuta una lingua regionale e minoritaria ai sensi della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, che all'art. 1 afferma che per "lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue... che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato" Nello specifico, la Carta europea per le lingua regionali minoritarie è stata approvata il 25 giugno 1992 ed è entrata in vigore il 1º marzo 1998. L'Italia ha firmato tale carta il 27 giugno 2000 ma non l'ha ancora ratificata. Pur avendo dunque, secondo alcuni studiosi, le caratteristiche per rientrare tra gli idiomi tutelati dalla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie ed essendo censito dall'UNESCO come lingua in pericolo d'estinzione, in quanto parlato da un numero sempre minore di persone, la lingua lombarda, e con essa il milanese, non è ufficialmente riconosciuta come lingua regionale o minoritaria dalla legislazione statale italiana.

La pronuncia delle vocali e delle consonanti in dialetto milanese è la seguente:

Vocali
  • a si pronuncia come in italiano (es: cann, it. "canna");
  • à si pronuncia nasale (es: Milàn, it. "Milano");
  • aa si pronuncia prolungata (es: compraa, it. "comprare");
  • è si pronuncia come in italiano (es: cavèi, it. "capelli");
  • e si pronuncia chiusa (es: ben, it. "bene");
  • i se è seguita da vocali, ha una pronuncia tronca (es: voeuia, it. "voglia"), mentre se è seguita dalle consonanti, d, l, n ed r, va pronunciata allungata e accentata (es: barbis, it. "baffi");
  • ô si pronuncia come la u italiana tonica (es: tôsa, it. "ragazza");
  • o si pronuncia come la u italiana atona (es: tosànn, it. "ragazze");
  • u si pronuncia come la "u" francese e la ü tedesca (es: mur, it. "muro");
  • oeu si pronuncia come la "eu" francese e la ö tedesca (es: fioeu, it. "figlio").
Consonanti

  • b in fine di parola e dopo una vocale si pronuncia "p" (es: goeubb, it. "gobbo");
  • c in fine di parola si pronuncia come la "c dolce" (es: secc, it. "secco");
  • g in fine di parola e dopo una vocale si pronuncia come la "c dolce" (es: magg, it. "maggio");
  • s'c si pronuncia "s" aspra seguita dalla "c" dolce (es: s'ciena, it. "schiena");
  • s'g si pronuncia come "sg" di sgelare (es: s'giaff, it. "schiaffo");
  • v in fine di parola e dopo una vocale si pronuncia "f" (es: noeuv, it. "nuovo"), mentre in mezzo alla parola si elide (es: scova, it. "scopa").

Il dialetto milanese possiede molte caratteristiche fonologiche e fonetiche che si riscontrano anche nelle lingue romanze oppure negli idiomi gallo-italici:

  • il mantenimento della -ˈa negli infiniti della prima coniugazione (milan. cantà, it. "cantare");
  • La degeminazione consonantica (milan. bicér, it. "bicchiere")
  • La caduta delle vocali finali esclusa la "a";
  • La caduta della "r" finale negli infiniti (milan. andà, it. "andare")
  • La lenizione delle consonanti intervocaliche (milan. növ, it. "nuovo")
  • La negazione (milan. "minga") posposta al verbo (milan. lü al màngia minga, it. "lui non mangia")
  • La lenizione delle consonanti occlusive sorde intervocaliche (es. lat. Fatigam > milan. fadiga, it "fatica"; lat. Monetam > milan. muneda, it. "moneta");

Oltre a queste caratteristiche comuni con le altre lingue gallo italiche, il dialetto milanese possiede delle caratteristiche fonologiche e fonetiche peculiari:

  • La perdita delle vocali finali latine eccetto la "a", risultata dal procedimento di sincope, che è presente anche nella lingua francese: (es. lat. Mundum > milan. mond, it. "mondo").
  • L'evoluzione della "ū" latina in ü (lat. Plus > milan. püse, it. "più");
  • L'evoluzione della "ŏ" latina in ö (lat. Oculus > milan. öc, it. "occhio").
  • La presenza della desinenza -i oppure -e nella prima persona del presente indicativo (milan. mi pödi, it. "io posso").  

Il lessico del dialetto milanese si basa principalmente sul latino, in particolar modo sul latino volgare utilizzato dai Galli cisalpini, che era caratterizzato da un vocabolario limitato e semplice. In seguito la lingua parlata dagli antichi milanesi subì una latinizzazione, che portò alla scomparsa di quasi tutti i lemmi celtici. Al XXI secolo sono molto pochi i lemmi del dialetto milanese di origine dalla lingua celtica, fermo restando la traccia che questo idioma ha lasciato sulla fonetica, su tutti i fonemi "ö" e "ü", tipici del dialetto milanese e assenti in italiano. L'idioma celtico, da un punto di vista linguistico, ha formato il substrato del dialetto milanese. Secondo alcune fonti, lemmi derivanti dal celtico sarebbero, ad esempio, ciappà (da hapà; it. "prendere"), forèst (da fforest; it. "selvatico", "selvaggio", "chi viene da fuori"), bugnón (da bunia; it. "rigonfiamento", "foruncolo", "bubbone"), arént da (da renta; it. "vicino", "prossimo"), garón (da calon; it. "coscia") e bricch (da brik; it. "dirupo").

Dato che il latino volgare era ricco di lemmi derivanti dal greco antico, il dialetto milanese possiede molte parole che derivano da quest'ultimo idioma come, ad esempio, cadrega (dal greco κάθεδρα, da leggere "càthedra"; it. "sedia"). Sono invece un numero nettamente superiore i lemmi che derivano dalla lingua latina. Alcuni vocaboli milanesi di derivazione latina che non hanno il corrispettivo nella lingua italiana, dove infatti hanno un'altra etimologia, sono tósa (da tonsam; it. "ragazza"), michètta (da micam; è un tipico pane milanese), quadrèll (da quadrellum; it. "mattone"), incœu (da hinc hodie; it. "oggi"), pèrsich (da persicum; it. "pesca"), erborín (da herbulam; it. "prezzemolo"), erbión (da herbilium; it. "pisello"), pàlta (da paltam; it. "fango"), morigioeù (da muriculum; it. "topolino"), sidèll (da sitellum; it. "secchio"), gibóll (da gibbum; it. "ammaccatura"), prestinee (da pristinum; it. "panettiere").

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente e l'arrivo dei barbari, il dialetto milanese si è arricchito di lemmi derivanti dalla lingua gotica e dalla lingua longobarda. Molte parole derivanti da questi due idiomi sono giunte sino al XXI secolo come, ad esempio, per quanto riguarda il longobardo, bicer (da bikar; it. "bicchiere"), scossà (da skauz; it. "grembiule"), busècca (da butze; it. "trippa") o stracch (da strak; it. "stanco"), mentre, per quanto riguarda il gotico, biott (da blauths; it. "nudo"). In particolare, il longobardo ha formato il superstrato del dialetto milanese, visto che questa popolazione non impose la propria lingua; la lingua longobarda lasciò quindi tracce senza germanizzare il milanese, che rimase pertanto un idioma romanzo.

Diversi sono poi i vocaboli provenienti dalla lingua occitana come molà (da amoular; it. "arrotare"), setàss (da sassetar; it. "sedersi"), boffà (da bouffar; it. "soffiare", "ansimare"), quattà (da descatar; it. "coprire"), domà (da ; it. "solamente", "solo"). Come conseguenza del dominio spagnolo sul Ducato di Milano il dialetto milanese si è arricchito di nuovi lemmi derivanti dalla lingua spagnola come scarligà (da escarligar; it. "inciampare"), locch (da loco; it. "teppista", "stupido"), stremìzzi (da estremezo; it. "spavento", "paura"), pòss (da posado; it. "raffermo"), rognà (da rosnar; it. "brontolare"), tomàtes (da tomate; it. "pomodoro"), tarlùcch (da tarugo; it. "pezzo di legno", "duro di comprendonio"), mondeghili (dal catalano mondonguilha; è il nome delle "polpette alla milanese") e smorzà (dal basco smorzar; it. "spegnere").

Dal XVIII secolo al XIX secolo, complici prima l'illuminismo e poi le invasioni napoleoniche, il dialetto milanese si arricchì di lemmi derivanti dalla lingua francese come, ad esempio, buscion (da bouchon; it. "turacciolo"), rebellott (da rebellion; it. "confusione"), clèr (da éclair; it. "saracinesca"), assee (da assez; it. "abbastanza", "a sufficienza"), paltò (da paletot; it. "cappotto") e fránch (da francs; it. "soldi"). La dominazione austriaca lasciò invece vocaboli derivanti dalla lingua tedesca come móchela (it. "smettila"), baùscia (da bauschen; it. "gonfiarsi", "sbruffone") e ghèll (da geld; it. "centesimo di una moneta").

A causa della mancanza dei parametri che fissano propriamente una lingua, si sono sviluppate varie differenti convenzioni ortografiche. Il sistema di scrittura con più prestigio e tradizione storica è il milanese classico, nato nel XVII secolo grazie a Carlo Maria Maggi, codificato nell'Ottocento grazie tra gli altri a Francesco Cherubini e utilizzato fino alla prima metà del XX secolo: basato sul sistema di scrittura della lingua toscana, e quindi anche dell'italiano, possiede elementi specifici per rendere graficamente i fonemi peculiari del dialetto milanese come, ad esempio, il gruppo "oeu" per scrivere la vocale anteriore semichiusa arrotondata [ø] (milan. coeur, it. "cuore"), che si usa anche nella lingua francese, nonché la u per il suono [y], oppure la ó per la cosiddetta "u toscana" [u].

Il secondo sistema scrittura, denominato milanese moderno, è stato introdotto nel XX secolo da Claudio Beretta, scrittore, storico e linguista nonché presidente del Circolo Filologico Milanese, per sopperire ai limiti del milanese classico, in particolare riguardo alle vocali anteriori chiuse arrotondate [y] e [ø], che sono diventate foneticamente "ü" e "ö", facendo riferimento all'uso nella lingua tedesca.

È opinione comune che determinate sonorità del milanese, così come del lombardo e di altre lingue e dialetti del gruppo gallo-italico in generale, abbiano una certa somiglianza col francese. Esso deriva in parte dalla presenza di suoni come "oeu" (ö), "u" (ü); dell'abbondanza di parole tronche, soprattutto nei verbi (staaandaastracch, ecc.). Alcune parole o frasi brevi di significato sono addirittura identiche: "oeuf", "Noisette" e "assez" significano rispettivamente "uovo" "nocciole" e "abbastanza" in entrambi gli idiomi e "ça te dit" (cosa ne dici?) rappresenta un tipico esempio di frase affine. 

Queste notevoli somiglianze non sono originate da una influenza diretta del francese, ma vanno fatte risalire ad una fase di evoluzione comune tra le lingue della attuale Francia e di quelle dell'area padana durante il Medioevo. I veri francesismi si limitano per lo più a prestiti (es. ascensœur in milanese è mutuato dal francese ascenseur, ascensore; l'utilizzo di giambon per prosciutto, ecc.).

LatinoFranceseMilaneseItaliano
corcœurcoeurcuore
-siègesèggia/cadregasedia
-plafondplafonsoffitto
habereavoiravè(gh)avere
viderevoirvedèvedere
bibereboirebevbere
paterpèrepaderpadre
focusfeufoeughfuoco
filiusfilsfioeufiglio
esseêtrevessessere
nascinaîtrenassnascere
manusmainmanmano
claviscléfciavchiave
liberlivreliberlibro
augellusoiseauusèlluccello
crederecroirecredcredere
voxvoixvosvoce
cruxcroixcroscroce
frigidusfroidfrèggfreddo
laxarelaisserlassàlasciare
canischiencancane
basiarebaiserbasàbaciare
deusdieudiodio
cumaveccon(t)con
alterautrealteraltro
insulaîleisolaisola
vitrumverrevedervetro
flumenfleuvefiummfiume
vetulusvieuxvèggvecchio
vulpesgoupilvolp / golpavolpe
facerefairefare
lactislaitlattlatte

sabato 6 novembre 2021

ON LITER IN QUATTER

Se c’è una cosa in cui nessuno può battere un milanese è l’arte di dare soprannomi. Il dialetto milanese, nella sua semplicità e icasticità riesce sempre a dare un’idea immediata di qualunque cosa. Questa capacità spesso viaggia a braccetto con una sottile ironia, altra caratteristica connaturata nel nostro bel dialetto. Girando quindi per Milano non vi dovete meravigliare se sentite chiamare le più celebri statue in modi quantomeno originali o poco ossequiosi. Sono certa che dopo averli sentiti guarderete l’opera con altri occhi.
Tutti siamo passati almeno una volta nella vita in piazza della Scala. Al centro domina, come saprete, il monumento formato da cinque statue: la più alta è quella di Leonardo da Vinci, alta 4,40 metri e posizionata al centro. Al livello inferiore troviamo altre quattro sculture alte 2,60 metri. Raffigurano i quattro allievi migliori di Leonardo: Giovanni Boltraffio, Marco d’Oggiono, Cesare da Sesto e Gian Giacomo Caprotti. Tale monumento fu inaugurato il 4 settembre 1872 alla presenza dell’artista, Pietro Magni e del re Umberto I. Vi era tutta l’intellighenzia milanese dell’epoca, tra cui Giuseppe Rovani, artista scapigliato.
Pare che qualche giorno più tardi, Magni stesse cenando in un’osteria insieme a Rovani ed altri due amici e insistesse nel chiedere allo scapigliato un parere spassionato sulla sua opera. Sembra quindi che Rovani abbia preso il fiasco di vino da un litro dalla tavola e lo abbia messo al centro, tra i quattro commensali. Dopodichè pare che si sia rivolto al Magni e gli abbia detto:
“Ecco qui la tua opera: on liter in quatter…” Il successo di tale definizione fu immenso e la statua passò cosi alla storia per la sua somiglianza ad una bottiglia di vino con quattro bicchieri intorno.

sabato 30 ottobre 2021

BALABIOTT

Uno dei termini più pittoreschi del milanese ha un’origine altrettanto curiosa. Vediamo che cosa significa e perchè si definisce in questo modo
Un tempo era usuale sentirsi dire dai nonni: “Va là, balabiòtt!”. Non è esattamente un insulto ma nemmeno un complimento. Per comprendere il suo significato dobbiamo analizzare le due parole da cui è composto: “balla” e “biotto”, cioè balla nudo.
Ci sono due interpretazioni a tale epiteto: la prima vuole associare alla figura del danzatore nudo quella del matto. Fino alla riforma Basaglia infatti, negli anni ’60 i matti nel manicomio venivano lasciati nudi. Secondo questa ipotesi chi ti dava del balabiòtt ti dava quindi del fuori di testa.
La seconda teoria narra che nel 1796, durante le fasi costituenti della Repubblica Cispadana venisse piantato in tutte le città liberate un albero della libertà, un palo addobbato con ghirlande e nastri sormontato da un cappello frigio. Sotto questi alberi la gente, nel cui novero si contavano specialmente scamiciati e straccioni seminudi, ballava a suon di musica. Da qui l’appellativo balabiott.
Balabiott è un termine mutuato dalla lingua lombarda, traducibile in "danza nudo", per definire un guitto (Il termine guitto, genericamente, definisce la condizione di chi vive in maniera misera e sporca. Nel gergo teatrale veniva adoperata un tempo per definire in senso abbastanza dispregiativo un attore di basso livello e poco preparato la cui recitazione era comunque considerata sopra se non, talvolta, fuori le righe). oppure una persona facile a mostrare entusiasmo e sicurezza, ma di scarsa capacità realizzativa e dubbia integrità morale.
L'accezione attualmente utilizzata di balabiott nacque nel 1796, durante le fasi costituenti della Repubblica Cispadana, dopo la conquista dei territori italiani fatta dall'esercito rivoluzionario francese, guidato da Napoleone Bonaparte. In quei mesi di grandi rivolgimenti sociali, come in tutte le città europee liberate dalle istituzioni assolutiste, anche a Milano venne piantato l'albero della libertà, una sorta di palo addobbato con ghirlande e nastri, sormontato da un rosso cappello frigio, simbolo della Rivoluzione francese. Sotto questi "alberi" la gente era invitata a ballare al suono di musiche patriottiche. Si trattava di balli privi di formalità tradizionali, ai quali partecipava soprattutto la fascia di popolazione più umile e indigente, spesso composta da scamiciati e straccioni seminudi. Da cui l'appellativo balabiott.
Altre fonti, più credibilmente, attribuiscono una valenza politica a balabiott, ritenendo sia la versione lombarda di sanculotto, italianizzazione del termine francese sans-culottes, cioè privi di pantaloni portati dall'aristocrazia. In effetti, i balli intorno all'albero della libertà, iniziavano con la celebre danza della Carmagnola, per eseguire la quale venivano spesso scritturati attori di strada, a scopo dimostrativo e di richiamo, vestiti da sanculotti.
All'inizio del XX secolo il termine balabiott fu anche utilizzato dai contadini ticinesi per designare la comunità eterogenea di utopisti/vegetariani/naturisti/teosofi insediatasi sulle pendici del monte Monescia. Tale comunità si ispirava alle teorie di Bakunin, Mühsam (famosi anarchici), Oedenkoven, Ida Hofman e Gräser (socialisti utopici), Franz Hartmann e Pioda (teosofi ed umanisti vegetariani), von Laban (teorico della "riforma della vita"). La comunità degli utopisti del Monte Verità (così venne rinominato il monte), era finanziata soprattutto dalla nobiltà nordeuropea, affascinata dalle teorie che miravano all'elevazione spirituale e fisica dell'uomo, anche attraverso l'espressione artistica dei corpi e la rivoluzione sessuale. Gli abitanti locali, in effetti, osservavano con perplessità, gli atteggiamenti anticonformisti dei membri della comunità del monte e, a causa delle loro stramberie, li avevano sbrigativamente catalogati come stolti.
Ecco perchè la statua di Napoleone venne chiamata così dai milanesi

lunedì 25 ottobre 2021

LIGERA

La ligéra (o leggera, e anche lingera) era una forma di microcriminalità presente a Milano fino alla prima metà del XX secolo.Si trattava di una forma di microcriminalità, composta da criminali comuni quali borseggiatori, piccoli rapinatori, protettori, ladri d'appartamenti, truffatori, strozzini, contrabbandieri, ricettatori e allibratori. Alcuni giovani ligera divennero in seguito banditi celebri:  Francis Turatello, Renato Vallanzasca, Luciano Lutring, Ugo Ciappina, Luciano De Maria, Arnaldo Gesmundo, Enrico Cesaroni, Bruno Brancher, Carlo Bollina detto il Paesanino, Luigi Rossetti detto Gino lo zoppo, Sandro Bezzi e il boss dell'Isola Garibaldi Ezio Barbieri.

La ligera è spesso citata nelle canzoni popolari milanesi, come Porta Romana bella e Ma mi.

Alcuni appartenenti erano detti anche "locch", dallo spagnolo "loco" ossia pazzo, in dialetto milanese inteso come "teppista", la versione meneghina del guappo napoletano. Lo scrittore comasco, ma milanese di adozione, Paolo Valera dedicò tutto il proprio talento alla descrizione della vita dei bassifondi milanesi e, di conseguenza, della "ligera"; un'opera fra tutte: Gli scamiciati.

Danilo Montaldi, nel suo volume Autobiografie della leggera, considerando il fenomeno nella città di Cremona, identifica sostanzialmente la “leggera” con il proletariato agricolo che, nel processo di inurbamento, rimane emarginato. Il mondo popolare non formula naturalmente una definizione così precisa, ma modifica invece il valore del termine a seconda dell'area in cui esso viene usato. Nei grandi agglomerati urbani, la “ligera” significa, in senso lato, "malavita"; applicato a persona singola significa “piccolo malvivente abituale”: sono “ligera” il ladro d'appartamento, il giocoliere delle tre tavolette, il borsaiolo, il pataccaro. Nelle campagne, in genere, “lingera” o “lingia” indica “gente che non ha voglia di lavorare”, o almeno non ne ha voglia continuativamente: sbandati, irregolari. Nei testi dei fogli volanti dei cantastorie, “leggera” va intesa come connotazione di carattere letterario, che rimanda a modelli picareschi: miserabili ridotti a una fame iperbolica, quintessenza di pitocchi che vivono d'accattonaggio e di espedienti.

In alcuni vecchi canti, di origine sicuramente urbana, “ligera” sembra poi essere semplicemente sinonimo di “operaio”, come in un ben noto testo milanese che, tradotto in italiano, dice: “E con la cicca in bocca / e la forma di pan miglio / la povera ligera / va a portare i mattoni / e con tutti i tram che ci sono / la povera ligera viaggia sempre a piedi...” (Un'altra caratteristica costante della “ligera” è, proverbialmente, quella di spostarsi sempre a piedi).

Che in alcuni testi “ligera” sia sinonimo di “operaio”, o di “bracciante salariato”, getta luce su un fatto, molto significativo: cioè che i minatori connotano normalmente anch'essi “lingera” con significati negativi (“Le lingere sono quelli che, pur di lavorare di meno, fanno magari i lavori più pericolosi... poi intascano la paga e magari spendono tutto in ciucca e donne... tornano a lavorare proprio quando non ne hanno più, e la storia ricomincia da capo...”); mentre tale connotazione viene completamente a mancare nei loro canti.

Al contrario, nei canti questo termine viene sempre ad evidenziare un orgoglio di mestiere, di sfida, di protesta. Secondo Luigi Balocchi, i componenti delle bande agivano non armati, ossia “leggeri”.

Secondo Carlo Parpanesi, la parola leggera deriva dal fatto che gli orfani, miserabili e vagabondi indossavano indumenti leggeri, inadatti al clima rigido di Milano, e apparivano, pertanto, "leggeri". Si tratta di una notevole e mai ristampata opera autobiografica che ripercorre la vita dell'autore dalla nascita nel 1897 fino al 1947 circa. L'autore, rimasto orfano molto presto, costretto ai lavori più umili sin dalla più tenera infanzia, descrisse la Milano dei bassifondi con crudo realismo di stampo dickensiano. Parpanesi raccolse il testimone di Paolo Valera, anch'esso grande esploratore dei bassifondi milanesi fra tardo Ottocento e inizi del Novecento, la cui opera più famosa, Gli scamiciati, ispirò anche celebri canzoni milanesi, scritte o interpretate da famosi artisti come Gianni Magni,  Walter Valdi, Enzo Jannacci, Ornella Vanoni, Giorgio Strehler, Giorgio Gaber, Nanni Svampa ed anche da interpreti meno famosi, ma altrettanto incisivi e caratteristici, come Giancarlo Peroncini detto "il Pelè", Luciano Sada detto "il Pinza", Luciano Beretta, Mimmo Dimiccoli, Armando Brocchieri, Nino Rossi, Alberto Quacci e Teresio Pochini, noto come Renzo dei Navilii. Queste canzoni seguivano la tradizione solo orale di composizioni d'occasione, improvvisate per celebrare la gesta dei "Ligera" che frequentavano le osterie e i "trani", secondo la testimonianza orale di Arnaldo Gesmundo, che ricorda di averle sentite in detti luoghi, nella zona di Via Padova negli anni trenta e quaranta del secolo XX. 

Fra gli scrittori vanno ricordati i milanesi Giovanni Testori e Umberto Simonetta, autori di culto abili nel descrivere le fasi di cambiamento sociale di Milano negli anni del boom, anni che videro la lenta e progressiva estinzione della ligera.

A rendere palese il rinnovato interesse per la vecchia mala milanese, una enoteca di via Padova è stata chiamata proprio Ligera, mentre Ligëra '73 è il nome di una rock band milanese, nata dalle ceneri di alcuni gruppi street punk e rock 'n' roll locali.

Circa l'origine della parola esistono diverse teorie. Se l'accostamento che appare a prima vista è con l'aggettivo italiano leggero/-a (con allusione alla poca "gravità" dei reati), secondo Sanga (1986: 36-7) è probabile che invece il termine, di origine gergale, vada in realtà accostato ad espressioni come essere della legge, "appartenere al mondo dei marginali", e provenga quindi da legge, con un suffisso -era, anch'esso tipico del gergo (si veda ad esempio altrera= "altro", gagia > gagera = "amante", ecc). Un accostamento ipotizzabile, degno di nota secondo alcuni ricercatori contemporanei dell'area toscana, va ai lavoratori stagionali (minatori, braccianti, migranti) di fine Ottocento - inizi del Novecento, che viaggiavano con bagaglio "leggero" per impegnarsi in quel "lavoro occasionale”, percepito come sfruttamento. Negli spostamenti in treno intonavano canti inneggianti alla scarsa voglia di "lavorare da sfruttati" per ciascun giorno della settimana (canti di tradizione orale sulla “settimana della leggera, o lingera” e sul “trenino della leggera”), formando una categoria sociale caratterizzata dal precariato e dal bassissimo reddito.

Il poeta meneghino Delio Tessa dava al termine "lingera" il significato di teppaglia: “Passen tramm ch'hin negher/ gent sora gent... lingera.../ tosann e banch de fera!...” (Delio Tessa, L'è el dì di Mort, alegher! Nove saggi lirici in dialetto milanese, Einaudi, Torino 1988).

Ne "Il disperso di Marburg" di Nuto Revelli, Einaudi, Torino, 1994, pag. 36, sono definiti “lingere” da due informatori i delinquenti e sbandati che, spacciandosi per partigiani, depredavano contadini e rapivano e derubavano soldati di qualsiasi parte, tedeschi e non.

Imprescindibile anche l'indagine etimologica contenuta nel saggio di Bruno Pianta, La lingera di galleria, “Lingera”, “Ligera” o in alcuni testi scritti, con discutibile forma italianizzata, “leggera”, è un termine assai diffuso nel mondo popolare dell'Italia settentrionale, per indicare determinate categorie di persone, ed ha sempre connotazioni negative.

Non esiste un'etimologia sicura: tra le più improbabili, diffuse anche a livello popolare, ricordiamo quelle che la vogliono derivata dall'aggettivo “leggero”, inteso come:

  1. persona “leggera”, incostante, senza stabilità psichica e sociale;
  2. “alleggeritore” di portafogli ossia tagliaborse, borsaiolo;
  3. senza soldi, “leggero” di tasca (etimo raccolto nell'alessandrino da Franco Castelli; in quest'area il termine sembra aver acquisito, al volgere del secolo, una connotazione precisamente politica: i socialisti e i partiti della sinistra erano detti della lingera e venivano contrapposti ai partiti conservatori della pesanta.

In questo caso l'uso dei due termini in senso di antitesi sociale sembrerebbe avvalorare la tesi di una derivazione etimologica dall'aggettivo; in realtà è probabile che l'antitesi verbale sia stata costruita a posteriori sulla ormai avvenuta identificazione fra “lingera” e l'aggettivo leggero);

  1. minatore esperto, abile nell'uso della mazza “leggera” prima dell'avvento della perforazione a motore (etimo raccolto da Glauco Sanga a Premana).

Un'altra ipotesi di etimo, suggerita da un antiquario piemontese, è da lingher, gergo di malavita torinese che significa “pugnale”: per indicare “gente di coltello”. Segnalo anche l'affascinante, quanto cronologicamente impossibile, etimo indicato da un tassista milanese, che dava per certa la derivazione da Dillinger, il gangster statunitense. Interessante l'ipotesi di relazione col francese (e piemontese) lingerie (biancheria), nel senso di “persone provviste della sola camicia”. Secondo uno studioso, Niccolo' Orsini De Marzo, il vocabolo potrebbe sì avere etimo francese, sia pur deformato come diversi vocaboli dialettali lombardi, ma originante piuttosto da lisière, che significa margine e, per trasposto, anche la gente che sta al margine, come i piccoli delinquenti.

Nel dialetto genovese della Lingua Ligure, ancora oggi il termine legéra indica la persona malavitosa.

Altri, ricordando anche i termini dialettali lisnù (Lombardia orientale), lisòn (Lombardia occidentale) e analoghi, propongono una relazione con il meridionale lazzarone - lizerone - lingerone. Peraltro, a parte il dubbio dei passaggi fonetici, il termine lazzarone ha attualmente un'ampia diffusione in lombardo, e non ha praticamente subìto trasformazioni (lasarùn e lasarù). Chi sostiene questa relazione contesta, inoltre, l'etimo di lazzarone dal Lazzaro del Vangelo (etimo comunemente accettato), ipotizzando invece una parafonia da lacero. In tal modo, i lazzaroni napoletani e la lingera settentrionale si identificherebbero con “gli straccioni”.

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