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sabato 5 febbraio 2022

GIOVANNI BERCHET

nato a Milano 23 dicembre 1783
Nacque nel palazzo situato nella attuale via Cino del Duca al civico 2 da Federico e da Caterina Silvestri, primo di otto fratelli. Il padre era un commerciante di tessuti di Nantua in Francia. (Se si passa per la via proprio al civico 2 vi è la lapide che ricorda la sua nascita)
Da giovane fu traduttore non solo di opere poetiche all'avanguardia, che esprimevano il nuovo gusto romantico, come l'ode Il bardo di Thomas Gray, ma anche di romanzi, come Il vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith.
Nel 1816 fu l'autore del più famoso manifesto del romanticismo italiano, ovvero la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo.
Nel 1818 fece parte del gruppo che fondò Il Conciliatore, il foglio che era portavoce delle posizioni romantiche. Due anni dopo si iscrisse alla Carboneria, coltivando contemporaneamente la passione politica e quella letteraria. Partecipò ai moti repressi del 1821 e per sfuggire all'arresto fu costretto ad andare in esilio prima a Parigi, poi a Londra e infine in Belgio.
A questo periodo belga risale la sua produzione poetica: il poemetto I profughi di Parga (1821, edito nel 1823), le Romanze (1822-1824) e l'altro poemetto Le fantasie (1829). Tornato in Italia nel 1845, partecipò alle cinque giornate di Milano del 1848 e lottò con tutti i mezzi possibili per il raggiungimento dell'unità d'Italia, alla quale però non poté assistere per motivi anagrafici: dopo il fallimento della prima guerra di indipendenza e la iniziale prevalenza dell'Austria fu costretto a riparare in Piemonte. Nel 1850 si schierò con la destra storica e fu eletto al Parlamento subalpino. Morì l'anno successivo. È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

STENDHAL e la sua Milano

Il francese Stendhal (al secolo Marie-Henri Beyle 1783-1842), tanto celebre per le sue opere letterarie da non aver bisogno di presentazione in questo breve scritto (leggi la biografia), è ricordato anche per aver amato così tanto Milano, da aver voluto che sul suo epitaffio, a Montmartre, egli risultasse "milanese".
Stendhal giunse per la prima volta nella città di Milano al seguito dell'esercito napoleonico, intorno al 10 giugno del 1800, trovando prima alloggio nel palazzo D'Adda (oggi via Manzoni) all'epoca non ancora ultimato del tutto, poi in palazzo Bovara (corso Venezia, dove sulla facciata è affissa una targa commemorativa).
Gli impegni militari lo portano presto in altre città del nord Italia, fino al suo rientro in patria, avvenuto per congedo nel dicembre del 1801.
Tornò a Milano nel 1814, ancora nel mese di giugno. Dopo alcuni spostamenti anche in terra di Francia, si stabilì a Milano nel 1816, e vi rimase fino al 1821.
Ancora a Milano il 10 gennaio del 1828, dove presentò richiesta alla polizia austriaca di un permesso di soggiorno di quindici giorni: permesso negato, con l'ingiunzione di lasciare immediatamente la città quale persona indesiderata.
Metterà da lì in avanti piede a Milano solo saltuarimente, per pochi giorni e semi clandestinamente.
Tra le sue opere, scritti, lettere e diari, è possibile ricavare un numero assai elevato di descrizioni non solo di luoghi cittadini, ma anche di momenti di vita milanese, senza scordare numerosi accenni a paersonaggi più o meno in luce all'epoca (nobili, politici, cantanti e musicisti che popolavano la città).
Senza naturalmente poter essere esaustivi, di seguito alcune sue considerazioni su Milano e i milanesi, da leggersi un po' come degli aforismi, che ancora possono farci riflettere.
Primissime notazioni, all’arrivo in città (giugno-agosto 1800)
- La facciata di casa d’Adda era ancora incompiuta, poiché a quei tempi era ancora di nudi mattoni. Entrai in un magnifico cortile. Salii per una superba scalinata. Vista stupenda che dava sulla corsia.
- Poco dopo mi servirono delle squisite cotolette impanate. Per molti anni questo piatto mi ha ricordato Milano.
- Qui c’è una calura insopportabile per un francese, ne siamo tutti oppressi.
Considerazioni generali sulle bellezze architettoniche cittadine
- Milano è la città d’Europa con le strade più comode e i cortili più belli all’interno delle case.
- Qui esiste una commissione d’ornato; quattro o cinque cittadini noti per il loro amore per le opere e le belle arti, e due architetti, compongono tale commissione, la quale esercita le proprie funzioni senza compenso. Essa dà il proprio parere. Se il proprietario vuol fare eseguire qualcosa di esageratamente brutto i membri della commissione ridono di lui nelle conversazioni. Presso questo popolo nato per il bello, … ci si occupa un mese di seguito del grado di bellezza della facciata di una casa nuova.
- Far costruire una bella casa a Milano conferisce la vera nobiltà. L’ambizione segreta di tutti i milanesi è quella di costruire una casa o se non altro di rinnovare la facciata di quella ereditata dal padre.
Ed ecco una nota su un’invenzione molto pratica:
- Ad esempio si può passare vicino alle case quando piove: grondaie di latta portano l’acqua dai tetti nel canale che scorre sotto ogni strada. Dal momento che i cornicioni sono sporgenti, quando si cammina lungo le case, si è quasi al riparo dalla pioggia.
Sui monumenti e sui luoghi di interesse
 - Bisogna dire che l’architettura era scadente verso il 1778 quando Piermarini costruiva il teatro alla Scala, modello per gli ornamenti interni, ma non certo per le sue due facciate.
- Settembre 1816. Definisco la Scala il primo teatro al mondo, perché è quello che fa provare più piacere attraverso la musica. Non ci sono lampade in sala, è illuminata unicamente dalla luce riflessa dalle scene.
- Quando c’è un ballo in maschera, verso le due si cena nei palchi che sono illuminati; sono notti di follia. Si arriva alle sette per lo spettacolo. A mezzanotte, degli uomini in cima a scale alte settanta piedi e portate da un altro uomo in platea, accendono sei candele poste davanti ad ogni palco; a mezzanotte e mezza si da inizio al ballo.
-di recente 400 proprietari del casino di san Paolo hanno speso una cifra esorbitante di denaro per ornare il loro palazzo. La sala da ballo, tutta nuova e magnifica, mi è sembrata più vasta del primo salone del museo del Louvre.
- presenta un’architettura molto bella, vi dicono. Dovete intendere che è terribilmente triste e cupa. Non potrei ridere una volta alla settimana se abitassi nel palazzo Arconti. Questi palazzi mi ricordano sempre il medioevo…
-La facciata parzialmente gotica  non è bella ma è davvero graziosa. Bisogna vederla illuminata dalla luce rossastra del sole al tramonto.
- 2 novembre 1816: ieri all’una del mattino (col chiaro di luna) sono andato a vedere il Duomo. Qui ho trovato un silenzio assoluto. Quelle piramidi di marmo bianco, così gotiche e slanciate che si elevano nell’aria e si stagliano sul blu cupo di un cielo meridionale ornato di stelle scintillanti, formano uno spettacolo unico al mondo.
- È a Napoleone che si devono la facciata parzialmente gotica e tutte le guglie sulla fiancata meridionale, verso palazzo regio…le vetrate fanno in modo che le cinque navate dell’interno conservino quella bella oscurità che si confà alla religione che predica l’inferno eterno.
- Nei pressi dell’altare maggiore, a mezzogiorno, si trova un passaggio sotterraneo aperto al pubblico che, dall’interno della chiesa conduce sotto il portico del cortile dell’arcivescovado.
- Ho visto la statua di san Bartolomeo scorticato che porta gagliardamente la propria pelle a bandoliera, molto apprezzata dal volgo, e che potrebbe fare bella figura nella sala anatomica di un ospedale, se non fosse piena di errori di anatomia.
- San Carlo, che è prima o dopo la Madonna, il vero Dio dei milanesi. Per la sua festa, si ricopre di damasco rosso la base degli enormi pilastri gotici del duomo. A trenta piedi di altezza si appende una quantità di grandi quadri che raffigurano gli episodi principali della vita di san Carlo.
-Al ritorno ho visto le magnifiche colonne antiche di san Lorenzo ; ce ne sono sedici, sono disposte i fila diritta, scanalate, di ordine corinzio, e alte fra i 25 e i 30 piedi. Per ammirarle occorre un occhio già uso a separare le rovine della venerabile antichità da tutte le sciocchezze di cui le ha sovraccaricate la puerilità moderna.
La chiesa di san Lorenzo, eretta dietro le 16 colonne antiche, mi ha divertito per la sua forma originale.
(sbattezzata dai reazionari del luogo) è bella senza essere copiata dall’antichità, mentre la borsa di Parigi sarà solo la copia di un tempio greco (questa porta, in realtà un arco trionfale con i due caselli daziari in posizione arretrata, fu progettata da Luigi Cagnola in stile neoclassico e costruita fra il 1802 e il 1814, su volere di Napoleone).
La chiesa di san Fedele (architettura del Pellegrini) che si scorge arrivando dal teatro alla Scala attraverso la via san Giovanni alle case rotte, è superba, ma di una bellezza di tipo greco, il che è allegro e nobile. Privo di senso del terrore.
- L’architettura di porta Nuova, altra opera di Napoleone, somiglia ad una miniatura eseguita con aridità: è di cattivo gusto come le decorazioni dei teatri di Parigi (il progetto della porta trionfale e dei caselli è dell'architetto Zanoia, 1813)
- Questa sera sono andato al teatro filodrammatico. È il nome che i reazionari hanno fatto imporre al teatro patriottico, fondato sotto il regno della libertà, verso il 1797, e sostenuto con magnificenza dai cittadini milanesi (il Teatro Patriottico nacque nella chiesa sconsacrata dei SS. Cosma e Damiano, dove oggi c'è la via Filodrammatici. La chiesa fu poi trasformata in vero teatro con il contributo del Canonica, del Piermarini e del Pollack, e la nuova sala venne inaugurata il 12 dicembre 1800).
Considerazioni sui costumi e sui passatempi dei cittadini milanesi
- Chi somiglia di più ai francesi qui sono le persone molto ricche. Più di quello che abbiamo noi, hanno l’avarizia, passione molto comune tra loro, che lotta in modo ridicolo con una forte dose di vanità.
- L’unica spesa che fanno sono i cavalli; ne ho visti diversi da tre, quattro , cinquemila franchi.
- Sono sorpreso di questo invito: i milanesi non invitano mai a pranzo: hanno ancora delle idee spagnole circa il lusso che bisogna sfoggiare in tali occasioni.
- Su 150 azioni, importanti o no, grandi o piccole, di cui è fatta la giornata, il milanese fa cento venti volte quello che gli piace nel momento stesso.
Il Corso delle carrozze sui bastioni di porta Venezia
- Tutti i giorni alle due c’è il corso, dove tutti sfilano a cavallo o in carrozza. Il corso si svolge a Milano, sul bastione fra porta Rense (Stendhal usa il nome che il popolo aveva dato alla porta orientale, strorpiando l'antico nome latino Argentea) e Porta Nuova.
- Tutte le carrozze sostano per mezz’ora sul corso. È una specie di sfilata della buona società. La domenica, tutto il popolo viene a d ammirare gli equipaggi dei suoi nobili (fin dal 1600 erano più di millecinquecento le carrozze a Milano, e almeno cento quella con tiro a sei cavalli).
- D’inverno il corso si svolge prima di cena, dalle due alle quattro. In tutte le città d’Italia c’è un corso, o sfilata generale della buona società. I milanesi sono fieri del numero di carrozze che danno lustro al loro corso. In una bella giornata di festa grande, e di sole, qui ho visto quattro file di vetture in sosta sui due lati del viale, e al centro due file di carrozze in movimento, il tutto regolato e diretto da dieci ussari austriaci. D’estate al ritorno del corso, si fa sosta in corsia dei servi a prendere dei gelati; si rientra a casa per dieci minuti, dopodiché si va alla scala.


GIUSEPPE PRINA

Era una giornata piovosa il 20 aprile 1814. Nonostante il brutto tempo, davanti al palazzo del Senato si era radunata una folla numerosa. C’erano borghesi e nobili con i loro ombrellini di seta e attorno si vedevano tantissime facce poco raccomandabili. Un cameriere travestito da plebeo salito su una scala riconosceva a colpo d’occhio le carrozze e dava il là: fischi, urla o applausi, a seconda che il convenuto appartenesse al partito degli italiani, degli austriacanti o dei filofrancesi. Per questi ultimi le imprecazioni erano le più forti. E nella plebaglia, tra i più scalmanati si distingueva il conte Federico Confalonieri (il futuro compagno di prigionia di Silvio Pellico) che ce l’aveva con Napoleone ma soprattutto con il suo vicerè Eugenio di Beauharnais, colpevole di ave corteggiato la bella moglie Teresa Casati. Quando la situazione degenerò e nessuno più diede ascolto alle parole del moderato Carlo Verri, Confalonieri fu visto in una sala del Senato afferrare il ritratto di Napoleone dell’Appiani e scagliarlo nel cortile.
Fu questo il preludio di quella fosca giornata che avrebbe portato a uno dei più efferati delitti milanesi, l’uccisione del ministro delle Finanze Giuseppe Prina, che segnò il passaggio d’epoca, dal traballante regno d’Italia di Napoleone, sconfitto ormai in Russia, alla restaurazione austriaca.
Già dall’assalto al Senato si era notata l’assenza di forza pubblica. Quando qualcuno urlò: adesso andiamo dal Prina, nessuno notò forze di polizia allertate. Il questore Luini per tutta la giornata si era reso irreperibile. E, mentre verso l’una del pomeriggio scoppiavano i tumulti, due guarnigioni di solito di stanza a Milano, capitale del Regno, si trovavano a sorvegliare le tranquille Lodi e Varese. Qualcuno aveva provveduto a sguarnire la città. La stessa mano, lo stesso partito che aveva assoldato i facinorosi dal contado.
Così nel primo pomeriggio cominciò l’assalto a Palazzo Sannazzari, un sontuoso edificio di proprietà pubblica, di fronte alla Chiesa di San Fedele, dove abitava il ministro delle Finanze, Giuseppe Prina, l’uomo più odiato del momento.
Giuseppe Prina, nato nel 1766 a Novara da una famiglia patrizia, era stato uno studente di legge molto brillante ed era stato notato dallo stesso Napoleone ai convegni di Lione per il suo eloquio asciutto e preciso. Diventato filonapoleonico in quanto vedeva concretizzarsi la possibilità dell’unificazione italiana, per le sue doti politiche e professionali era presto assurto al ruolo di figura forte del governo del neonato regno italico. Un ruolo impopolare quello di ministro delle Finanze, costretto a far pagare le tasse agli evasori e a imporre nuove gabelle per mantenere i 27 mila soldati italiani, la maggior parte dei quali lombardi, al seguito della spedizione napoleonica in Russia.
Già nei giorni precedenti e la stessa mattina del venti, gli amici avevano consigliato al Prina di cambiare aria, qualcuno gli aveva offerto rifugio a Pavia, ma lui aveva risposto sdegnosamente: “non sarei mica un piemontese” e si era fatto vedere in giro per Milano in sella al suo cavallo. Quando la folla si radunò davanti alla sua casa lui era intento a leggere la grammatica inglese. I più scalmanati forzarono le porte e si misero in cerca del ministro, che fu trovato assieme a un inserviente nascosto in uno sgabuzzino dell’ultimo piano. “E’ lui, è qui” gridò il ragazzo che l’aveva scovato. Così cominciò il linciaggio, uno strazio durato quattro ore. A nulla valse l’intervento del mantovano conte di Peyri, che cercò di mettersi tra la vittima designata e la folla inferocita, né fu efficace l’invito alla calma del tenore Filippo Galli. Il Prina fu agguantato spogliato e gettato da una finestra in un cortile. Mentre i violenti infierivano sul poveruomo anche con gli ombrelli, gli avidi, come ha raccontato nella memoria “Sulla rivoluzione di Milano” l’avvocato napoleonico Leopoldo Armaroli, si diedero alla caccia del fantomatico tesoro accumulato dal Prina, che essendo un uomo molto onesto in realtà possedeva poco più di cento lire. L’accanimento della folla fu tale che alla fine della giornata di Palazzo Sannazzari rimanevano solo macerie, come dopo un incendio o dopo un terremoto. L’edificio fu alla fine demolito per far posto alla piazza dove oggi sorge la statua del Manzoni.
Un altro tentativo di salvataggio, in cui sembra ebbe una parte Ugo Foscolo, avvenne agli inizi della via oggi intitolata all’autore dei “Promessi Sposi”. Il ministro venne nascosto nella cantina di un vinaio, ma in seguito alla minaccia di dar fuoco a quella casa, il Prina con un estremo atto di coraggio si consegnò alla folla, che lo trascinò davanti alla Scala e poi in piazza Cordusio, dov’erano alcuni uffici del fisco. Quel che rimaneva del corpo straziato venne abbandonato nei portici del Broletto. Qui alla fine della giornata intervennero le milizie comandate dal generale Domenico Pino. Il volto era irriconoscibile, un occhio cavato. I medici non riuscirono a individuare il colpo mortale.
Di quella giornata fu timido testimone Alessandro Manzoni, che forse con un senso di colpa per non essere intervenuto, ne scrisse ne “I promessi sposi”. L’assalto al forni in corsia dei Servi del capitolo XII è indubbiamente ispirato all’eccidio del Prina: “In questa scappò di mezzo alla folla una maledetta voce: c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a dare il sacco”. Gli stessi luoghi, lo stesso orrore ambientati due secoli prima.
Dino Messina

ANTICA LATTERIA MESCHIA

l'Antica Latteria Meschia, al civico 58 del corso di Porta Ticinese.
Così descrive il proprietario, nello scritto di Leone Tettoni "Cronaca della rivoluzione di Milano", del 1848: "Lattivendolo di Porta Ticinese, va distinto tra i più valorosi combattenti delle barricate durante i cinque giorni. Egli tormentò il nemico ora in Viarenna, ora al bastione, uccidendo alcuni cannonieri sull'atto che stavano per dare il fuoco al loro micidiale istrumento. Apportatosi dietro un camino sul tetto, davanti al campanile di S. Eustorgio, uccise con dieci colpi altrettanti soldati che s'erano impadroniti di quella torre, e da dove moschettavano sopra i cittadini".
Così Antonio Vismara in "Storia delle gloriose cinque giornate di Milano", del 1873: " Il cannone non cessava mai di tuonare dal dazio di porta Ticinese tanto verso il ponte, come dal bastione verso Viarenna. Però le palle non arrivavano sino all'ortaglia delle monache; fu per ciò che il lattivendolo G. Meschia con pochi suoi compagni potettero appostarsi nella contrada delle Vetere; dalla quale con carabine di precisione fulminarono i cannonieri che stavano al dazio; e furon sì aggiustati i colpi, che non uno andò fallito, in modo che mano mano che gli artiglieri avvicinavansi al cannone per darvi fuoco, essi cadevano colpiti dai tiri di quegli animosi".
Oggi il civico 58 di corso di Porta Ticinese esiste ancora, tale e quale alla foto.

MOZART e MILANO

Fu un'esperienza densa di eventi, quella che l'adolescente Wolfgang visse nel capoluogo lombardo, accompagnato dal padre e già osannato dai maestri italiani.
«Mozart ha nella preghiera l’atteggiamento del bambino», osservava Adrienne von Speyr: «Dice tutto e ciò gli ritorna in melodia. Non c’è differenza fra il suo essere al pianoforte e il suo pregare. La musica serve a offrire all’uomo un’esperienza di preghiera».
Che la vita del genio salisburghese sia stata “burrascosa” è cosa nota. E ciò nonostante Wolfgang Amadeus Mozart fu sempre mosso da un autentico senso religioso, riconoscente a Dio per quel talento straordinario che gli era stato concesso e che, evangelicamente, aveva saputo mettere a frutto. Per questo, in un tempo in cui la superficialità musicale del “bello stile” si imponevano non solo nelle corti ma anche nelle cattedrali d’Europa, molte delle composizioni di Mozart riflettono invece una profonda, consapevole professione di fede.
Non aveva ancora compiuto il suo quattordicesimo compleanno, infatti, quando Wolfgang Amadeus Mozart giunse per la prima volta a Milano. Era il 21 gennaio 1770, e il padre Leopold che lo accompagnava si aspettava molto da questo viaggio in Italia. Nel capoluogo lombardo, del resto, la vita musicale vi ferveva intensa in quegli anni: nei salotti aristocratici si tenevano accademie in cui si esibivano, di volta in volta, onesti dilettanti e grandi virtuosi, mentre il teatro ducale metteva in scena le opere dei più importanti autori dell’epoca. Senza contare che proprio a Milano operava uno dei più autorevoli compositori di musica strumentale, quel Giovan Battista Sammartini che, ormai settantenne, era stato maestro di più di una generazione di musicisti, italiani e stranieri.
In città i Mozart presero alloggio nel convento agostiniano di San Marco, vicino a quel palazzo Melzi dove risiedeva il conte Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario di Lombardia, salisburghese egli stesso per educazione, mecenate delle arti e grande appassionato di musica. Proprio in casa Firmian, infatti, il 7 febbraio, Mozart si esibì per la prima volta davanti ad un pubblico milanese.
Per Wolfgang quella serata fu un vero trionfo, e il severo esame dei musicisti milanesi, a cominciare dallo stesso Sammartini, si risolse con un aperto riconoscimento delle grandi qualità del giovanissimo artista, cosicché, al termine dell’esibizione, lo stesso Firmian volle onorare Mozart con l’omaggio delle opere complete di Metastasio. Un regalo che può forse far sorridere, se si pensa allo scarso piacere che un ragazzo di quattordici anni, non del tutto padrone della lingua italiana, poteva trarre da una tale lettura, ma che in realtà rappresentava un esplicito gesto simbolico, essendo Metastasio il principe riconosciuto dei librettisti.
Qualche giorno dopo, infatti, il padre Leopold poteva stringere commosso tra le sue mani la tanto attesa scrittura per un’opera da rappresentare al teatro ducale, nientemeno che in occasione della serata inaugurale: Mitridate re del Ponto, in una traduzione fatta dal Parini dell’omonima tragedia di Racine.
I concerti milanesi di Mozart si ripeterono nei giorni succesivi, sempre nel palazzo Melzi, alla presenza delle più importanti famiglie dell’aristocrazia milanese e dello stesso arcivescovo di Milano, il cardinale Pozzobonelli, uomo di raffinata cultura.
In marzo i due Mozart lasciarono il capoluogo lombardo, ma solo per tornarvi pochi mesi dopo, nell’ottobre dello stesso anno, questa volta ospiti dell’impresa del Ducale, che assegnò loro un alloggio in pieno centro, vicino al teatro stesso, da dove Wolfgang poteva continuare la stesura dell’opera commisionatagli e nello stesso tempo assistere e partecipare all’animata vita della città, che egli andava scoprendo con gli occhi incantati dell’adolescenza.
«Questo ragazzo ci farà dimenticare tutti», aveva commentato il grande compositore Johann Adolph Hasse, rivolgendosi ai suoi colleghi già affermati, la prima volta che aveva avuto occasione di ascoltare Mozart a Milano. Quasi un oracolo.

lunedì 24 gennaio 2022

ANSELMO RONCHETTI

Anselmo Ronchetti è stato un famoso calzolaio italiano. Nasce a Pogliano Milanese il 5 ottobre 1763. Studia a Gorla Minore presso il Collegio Rotondi.

Ben presto però, in seguito alla morte del padre, è costretto, a malincuore, ad abbandonare gli studi per problemi economici. Viene mandato a lavorare a bottega a Milano presso un calzolaio assunto come garzone,  del Carrobbio.

Dopo qualche anno, una volta appreso il mestiere, apre il suo negozio in via Durini. Cambierà sede diverse volte passando da via Larga alle Cinque Vie fino all'apertura dello storico negozio dove lavorò e visse per tutta la vita in via Cerva, quasi di fronte a via Borgogna.

Anselmo Ronchetti viene elevato agli onori della cronaca per essere diventato il calzolaio prediletto di Napoleone I grazie a un paio di stivali alla dragona.

Non solo ebbe come clienti personaggi famosi dell'apoca, ma in pochi anni il suo luogo di lavoro divenne, grazie alla sua passione per la letteratura, occasione di incontro di illustri letterati ed artisti, tra cui il Porta.

Tra i clienti più soddisfatti, si ricorda addirittura Napoleone che nel maggio 1796  entrò vittorioso a Milano insieme al suo esercito. Il Ronchetti osservò attentamente i piedi del condottiero, lì guardò talmente bene da riuscire a realizzare “a occhio” un paio di stivali che consegnò personalmente a Palazzo. Napoleone li provò e rimase stupito dalla comodità e dalla bellezza dei calzari. Naturalmente li acquistò subito e nominò Anselmo Rocchetti artigiano calzolaio personale.

Il Ronchetti diventa amico intimo di Napoleone. Era un uomo di cultura e un amico sincero. Napoleone gli disse “vorrei avere intorno a me tanti uomini che ti somigliassero”. Tra i suoi clienti diversi i nomi altisonanti che vennero conquistati non solo dalle sue creazioni ma anche dal gusto raffinato per le lettere e dal suo animo gentile. Nella sua casa si parlava di temi politici e sociali.

Il Porta, regalandogli la sua raccolta di poesie nell’edizione del 1817, gli fece questa dedica, con tanto di sonetto
Se il mio capo sul busto torreggia, 
E s’atteggia – al cangiar degli oggetti, 
Sol lo ebbe alla forza del piè; 
Ma se il piè regge franco e passeggia 
A chi reggia – non v’è, mio Ronchetti, 

Che alle scarpe e a stivali di te.” 

Non pochi furono i letterati che ebbero grande stima di lui tra cui Massimo d’Azeglio, Ugo Foscolo, Vincenzo Alfieri, Carlo Porta, Giuseppe Parini che gli regalò il suo orologio a pendolo e il bastone con il pomo d’avorio. Ma non solo letterati, anche pittori e scultori come Andrea Appiani o scrittori come Vincenzo Monti.

Una curiosità: fu lui l’inventore del ronchettino, la calzatura conosciuta oggi come il sabot. Morì a Milano il 19 agosto 1833 e fu sepolto nel cimitero di Porta Tosa.


domenica 9 gennaio 2022

FAMIGLIA DURINI

La Famiglia Durini la troviamo già intorno all’anno 1000: nobili del comasco avevano il titolo di Decurioni. Arrivano a Milano intorno al 1600 con la loro attività di banchieri.

Siamo nel periodo della dominazione spagnola e la famiglia Durini diventa molto importante proprio per la Spagna che, sempre a caccia di soldi, trova nella famiglia una fonte preziosa.

Gli affari vanno bene e nel 1644 danno incarico al Richini di costruire il loro palazzo. Ma non solo: pochi anni dopo succedono ai De Leyva nel dominio della contea di Monza. C’è da dire che proprio a Monza si daranno un gran da fare sia per le loro attività finanziarie ma anche per la cultura: la famiglia Durini emanò leggi per incentivare artigianato e commercio e fanno affrescare la cattedrale di San Giovanni Battista chiamando nomi quali il Nuvolone, Procaccini, il Legnanino e Ricci. Questi ultimi due ricevettero l’incarico di realizzare una grande tela che rappresentasse Teodolinda che fonda la basilica di Monza.

Giovanni Battista I Durini fece costruire Villa Mirabella che in seguito venne ampliata da Giuseppe I il quale comprò anche grandi lotti di terreno circostanti alla villa, con l’idea di realizzare grandi giardini (alla francese): stiamo leggendo i primi passi nello sviluppo di quello che oggi chiamiamo parco di Monza.

Sono stati tanti gli esponenti della famiglia Durini che hanno lasciato un segno importante nelle vicessitudini meneghine: nella finanza certamente ma anche nella vita ecclesiastica, diplomatica ed anche ai vertici del governo della città.

Ricordiamo che la famiglia Durini è ancora attiva.  Il loro palazzo nella via omonima venne comperato intorno al 1920 da Senatore Borletti* con l’obbligo di lasciar vivere nel palazzo Paolina Durini. Alla morte di quest’ultima nel 1925 il palazzo (nel frattempo restaurato dal Portaluppi) venne venduto ai Caproni di Taliedo che lo occuparono fino al 1957. Dal 1997 al 2009 una parte del palazzo ospitò la sede dell’Inter.

domenica 2 gennaio 2022

OSCULATI GAETANO

 temerario e avventuroso esploratore, pioniere e illustre naturalista afforese

Primogenito di undici fratelli, nacque il 25 ottobre 1808 a San Giorgio al Lambro, frazione di Biassono, presso Monza, in una agiata famiglia della borghesia lombarda. Abbandonò gli studi alla facoltà di medicina dell’Università di Milano, già al secondo anno, per dedicarsi ai viaggi e alle scienze naturali. A Livorno ottenne il diploma di capitano di lungo corso e in qualità di cadetto si imbarcò su navi mercantili. Intollerante della disciplina e potendo disporre di una buona rendita familiare, dal 1831 a soli 23 anni decise di intraprendere alcuni viaggi per conto proprio. Partì e attraversò il globo a bordo di battelli a vapore e velieri solcando gli oceani e i grandi fiumi, attraversò deserti e regioni remote della Siria, dell’Asia Minore, dell’Egitto e dell’Arabia. Celebrato per la sua più importante e ardita impresa (1846 – 1848) che lo vide attraversare l’America meridionale dalle coste del Pacifico alla scoperta del Rio Napo e lungo il Rio delle Amazzoni sino all’Atlantico. Fu illustre e valente scienziato naturalista, entomologo e botanico: durante i suoi avventurosi viaggi raccolse una mole impressionante di notizie e reperti etnografici ed entomologici, insetti sconosciuti, documentò nuove specie animali e botaniche che affidò al Museo di Storia Naturale di Milano e ai più importanti musei italiani. La permanenza con gli indigeni gli permise di studiarne usi e costumi e di scoprire come contrastare la malaria con l’utilizzo di alcune piante medicinali. Ne ottenne importanti riconoscimenti in ambiente scientifico. Gaetano Osculati morì ad Affori il 14 marzo 1894 ed è oggi sepolto nel cimitero Monumentale di Milano.

lunedì 1 novembre 2021

LA ROSETTA DELLA VETRA

Elvira Andrezzi non aveva ancora 18 anni, si prostituiva ma sognava di riscattarsi dal mondo della malavita come «canzonettista». Sulla sua fine nacque la canzone popolare cantata anche da Nanni Svampa. La storia della foto ritrovata
In largo Carrobbio, dove finisce il centro storico e comincia il quartiere Ticinese, ferveva la vita notturna agli inizi del Novecento, proprio come oggi, anzi forse di più. Non passava giorno che quella zona finisse nella cronaca nera cittadina. Proprio come avvenne il 27 agosto 1913, quando il Corriere della sera e gli altri quotidiani milanesi riportarono la notizia del suicidio di una giovane «canzonettista» che la notte tra il 26 e il 27, verso le 2, era stata fermata con un’amica e quattro uomini con cui si intratteneva in una carrozza. Sembra che il gruppo, piuttosto allegro e in vena di baldoria, non volesse obbedire agli ordini della polizia di sgombrare, tanto che fu necessario l’uso della forza. Colpita da una bastonata della polizia, la ragazza avrebbe ingerito delle pillole di sublimato corrosivo durante il trasporto all’ospedale Maggiore, dove morì alle 11.30 del 27.
Questa la prima versione dei fatti, che non risultò essere quella veritiera. La povera vittima si chiamava Elvira Andrezzi, avrebbe compiuto 18 anni il 1° settembre, ma era conosciuta con il nome di Rosetta. Di una bellezza intensa e sensuale, la povera Rosetta stava cercando di riscattarsi dall’ambiente malavitoso in cui era nata. In marzo aveva calcato le scene del teatro San Martino, in piazza Beccaria, probabilmente l’attuale Gerolamo, dove si era esibita con successo in un brano scritto appositamente per lei dal poeta Marco Ramperti e musicato dal maestro Mignone: si intitolava Scarliga, che in dialetto milanese vuol dire «scivola». Si era esibita con il nome d’arte di Rosetta di Woltery e secondo la Gazzetta degli spettacoli del 15 aprile 1913 il successo si era ripetuto anche al teatro Margherita di Roma. Presto sarebbe andata in tournée a Genova e in altri teatri.
Ma Rosetta non aveva ancora saputo dare un taglio netto con gli ambienti della prostituzione e della ligéra, come si chiamava la mala milanese. Il suo paroliere Ramperti scrisse che era «corteggiata da milionari e amante di teppisti». Comunque, i fatti quella sera del 26 agosto non andarono come avevano riportato i giornali sulla base dell’informativa di polizia. A fornire una versione più veritiera di quella storia tragica fu una tempestiva inchiesta dell’Avanti!, allora diretto da Benito Mussolini. I cronisti del quotidiano socialista tornarono al Carrobbio il giorno dopo e ricostruirono i fatti secondo le tante testimonianze dei passanti o degli abitanti che si erano affacciati alle finestre.
Sembra che Rosetta e i suoi amici non stessero cantando ma effettivamente non volessero lasciare largo il Carrobbio. I due agenti che avevano dato l’ordine di sgombrare chiesero allora l’aiuto di una pattuglia di venti poliziotti che stazionava nella vicina via Torino. Vennero usate le maniere forti e le daghe (i manganelli) in dotazione: Rosetta aveva preso una «piattonata» che l’aveva fatta svenire. Accompagnata verso via Vetraschi, dove abitava la sorella e dove aveva incontrato un fratello che faceva il facchino e stava andando al mercato del Verziere, la povera ragazza era stata picchiata una seconda volta ed era ancora svenuta. Fu allora trasportata in largo Carrobbio e, probabilmente, mentre i poliziotti discutevano se trasferirla in questura o ricoverarla all’ospedale, Rosetta aveva ingerito le pastiglie di sublimato per fingere il suicidio ed evitare l’arresto. Secondo il registro di ricovero riportato dall’Avanti!, «Elvira Andressi (sic) di anni 19, abitante in via Gaudenzio Ferrari 7, a scopo suicida ingoiava 3 pastiglie di sublimato corrosivo. Lei dice perché arrestata».
Secondo l’Avanti! Rosetta non aveva ingerito le pillole, tanto che non era stata trovata traccia del veleno «nel lavaggio gastrico immediatamente praticato». Probabilmente la ragazza era morta per le conseguenze delle percosse. Perché, chiedeva il cronista del giornale socialista, alla sorella Maria che era andata a visitarla non era stato dato il permesso di vedere in quali condizioni era il corpo di Rosetta? Aveva potuto soltanto notare una grossa ecchimosi a un braccio. «Mi hanno ammazzata», sussurrò Elvira alla sorella maggiore.
Alla versione della polizia non credeva più nessuno. Per la morte della povera Rosetta fu aperta un’inchiesta. Durante l’indagine vennero fuori tutti i precedenti una vita breve ma turbolenta: le risse in una trattoria con una prostituta detta «la contessa», il processo per la rapina della gioielleria Archenti di piazza del Duomo. L’autore del furto, riconosciuto colpevole, era un amante di Rosetta, Attilio Orlandi, detto buterin, piccolo burro. Ma la ragazza fu assolta. Durante l’inchiesta venne fuori anche il nome di un agente di polizia, Mario Musti, già protagonista nelle indagini sulla rapina. Lo stesso Musti che assieme a un altro agente, Antonio Santovito, fermò e accompagnò Rosetta in ospedale quella sera tragica.
Secondo alcune dicerie l’agente di origini calabresi si sarebbe invaghito, non corrisposto, della bella canzonettista, e perciò avrebbe preso a perseguitarla. Dal processo sulla morte di Rosetta che si concluse nel febbraio 1915 Musti fu assolto per non aver commesso il fatto e Santovito per insufficienza di prove. Lo stesso referto ospedaliero confermò la morte per avvelenamento. Una verità ufficiale cui gli otto fratelli e sorelle di Rosetta, i genitori e tutto il popolo del Ticinese non credette mai.
Al punto che Rosetta divenne un personaggio della mitologia popolare, tramandataci attraverso la canzone Povera Rosetta che è stata cantata da tanti interpreti con alcune varianti e imprecisioni. Secondo la versione di Milly «il 26 d’agosto in una notte scura hanno trovato un corpo la squadra di questura». Nanni Svampa e I Gufi sbagliarono giorno e cantarono «Il 13 di agosto in una notte scura commisero un delitto gli agenti di questura». Era questa una versione più colpevolista e accusatoria, tanto che tirava in ballo anche il presunto colpevole: «O guardia calabrese per te sarà finita perché te l’ha giurata tutta la malavita». Le due versioni, composte sulle note di una canzone militare, si possono facilmente ascoltare su YouTube.
Della povera Rosetta si occupò anche Leonardo Sciascia, in coda a una ricerca sulla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. La colonna infame sorgeva in via Gian Giacomo Mora, non lontana dal Carrobbio. E ad essa secondo alcuni si riferiva la canzone quando, alludendo al mestiere di prostituta, dice «battea la colonnetta». In realtà la colonnetta di cui parla la canzone è con tutta probabilità la colonna intitolata a San Lazzaro che sorgeva in piazza Vetra. Colonna a parte, il saggio di Sciascia Storia della povera Rosetta, pubblicato in tiratura limitata nel 1983 con illustrazioni di Franco Rognoni per le edizioni d’arte di Franco Sciarelli, restituisce dignità e verità a un personaggio popolare di una Milano che non c’è più. Interprete di questa Milano d’antan era anche Luciano Visintin, l’indimenticato cronista del Corriere della sera che il 25 febbraio 1980, grazie all’aiuto degli eredi, scovò tra le carte di Guido Forcolin, un commerciante di calze di via Torino, una foto della bella Rosetta. Dietro Guido aveva annotato romanticamente: «Rosetta, mi hai dato le più belle notti d’amore della mia vita».

venerdì 29 ottobre 2021

ANGELO RIZZOLI

 

Pochi sanno che l’impero di Rizzoli è stato messo in piedi dal nulla, dopo una vita di lavoro e costanza. Angelo Rizzoli ha origini molto umili: figlio di un ciabattino analfabeta, rimane ben presto orfano e vive la sua infanzia nel collegio Martinitt, un’istituzione storica di Milano che ha soccorso generazioni di orfani e meno abbienti. In questo contesto umile ma virtuoso cresce Angelo, che ben presto si appassiona all’artigianato e apprende il mestiere di stampatore. Appena diventato maggiorenne, nel 1912, apre la prima impresa con un altro compagno dell’orfanotrofio, ma è solo dopo la prima guerra mondiale che Rizzoli inizierà a lavorare a pieno regime come tipografo. La svolta avviene infatti nel 1917, anno in cui Rizzoli, tornato a Milano dalla trincea, decide di investire i pochi guadagni di guerra nel campo editoriale. 

Rizzoli capisce che, ben prima del mercato dei libri, è conveniente puntare sull’ascesa dei periodici. Decide di rilevare dalla Mondadori, casa editrice già affermata, quattro riviste sull’orlo del fallimento. Mondadori, volendosene disfare, li cede al giovane Rizzoli per 40mila lire, una cifra considerevole per l’epoca, ma comunque contenuta per ben quattro testate. Rizzoli, avvalendosi della consulenza dell’amico Calogero Tumminelli – che allora lavorava alla Treccani – trasforma i periodici Donna e Novella nelle riviste di punta nel mercato dei femminili. La sua intenzione è di modellare i consumi della classe media, senza dimenticare la missione culturale del lavoro editoriale. Le riviste femminili dell’epoca, infatti, avevano anche uno scopo pedagogico: alle donne della classe borghese veniva fornita una sorta di educazione, e un immaginario a cui attingere, attraverso gli articoli. Il successo dell’operazione permette a Rizzoli di espandersi: nel 1929 nasce la Rizzoli come la conosciamo, una casa editrice pronta a monopolizzare anche il mercato librario. 

Grazie all’intercessione di Tumminelli, la Rizzoli stampa l’enciclopedia Treccani dal 1929 al 1937. Parallelamente, la casa editrice si impegna nella ristampa di molti classici italiani, nonché nella ricerca delle migliori opere letterarie contemporanee, curata da Leo Longanesi, che fonderà poi Omnibus, il più moderno settimanale di informazione politica fra le due guerre. Rizzoli, a suo agio con la vita in comune sperimentata in collegio, ama circondarsi di collaboratori validi e fidati, che sopperiscono ai deficit della sua formazione culturale poco ordinaria. In casa editrice viene chiamato “Il patron” perché riesce a dosare la capacità di lasciare spazio ai propri collaboratori con il polso fermo del dirigente d’azienda. Rizzoli è avveduto: soppesa i costi e i benefici di ogni idea che gli viene proposta, e non si lancia mai in progetti accattivanti ma dall’incerto ritorno economico.La Rizzoli cresce grazie alla bussola fornita dal suo fiuto per gli affari e supportata dall’estro dei suoi collaboratori: Tumminelli e Longanesi sono due elementi importanti, insieme a un terzo che fa la fortuna della casa editrice, Luigi Rusca.

Rusca è un uomo di cultura, già alla guida del Touring Club che, passato alla consulenza di Rizzoli, ha l’idea di replicare il successo delle Meduse Mondadori, ma dandogli un taglio più popolare. Le proposte arrivano sulla scrivania di Rizzoli il lunedì mattina, l’editore le vaglia attentamente e, se approvate, ne scrive le specifiche o il budget stanziato a margine. Sono solo brevi indicazioni, ma tanto basta per avviare nuovi progetti in un meccanismo ben oliato come quello costruito da Rizzoli. L’editore ascolta tutti e poi decide seguendo il suo intuito. Nasce così la Biblioteca Universale Rizzoli – o semplicemente BUR – che si prefigge di pubblicare classici della letteratura mondiale a un prezzo accessibile a tutti. I primi autori pubblicati sono Manzoni, Leopardi, Foscolo, che nel secondo dopoguerra non posso mancare nelle case degli italiani. Ogni volume della BUR vende circa 30mila copie, la Rizzoli diviene un colosso europeo.

L’orfano del Martinitt era un uomo d’affari d’altri tempi: si dice che ogni giorno calcolasse a matita gli introiti delle sue molteplici attività, avendo sempre a mente la portata dei propri guadagni. La leggenda vuole che Angelo Rizzoli, che aveva il gusto per la battuta fulminante e amava recitare la parte del parvenu, alla vista dei dati di vendita della nuova collana, abbia detto a Rusca: “Caro Luigi lei mi ha imbrogliato: altro che cultura, con questi libri si fanno un sacco di soldi”. Un aneddoto che mette in luce l’affabilità e la brillantezza di un uomo dell’etica del lavoro incrollabile e dalla visione fuori dal comune. Giornali e libri non sono abbastanza per Angelo, nell’Italia post-fascista l’immaginario nazionale passa dalle fascinazioni del cinema. Rizzoli fonda nel ’56 la Cineriz, una casa di produzione che farà la storia della cinematografia italiana. I primi successi del Rizzoli produttore sono i film su Don Camillo, che riprendono il fortunato filone dei libri di Guareschi, autore di punta della Rizzoli libri. Ma dagli studi della Cineriz passano anche Pasolini, Visconti, De Sica, Germi e Fellini. Anche come produttore Rizzoli riesce a raggiungere senza contraddizione successo commerciale e grande qualità. 

L’ultimo desiderio di Rizzoli fu l’acquisizione del Corriere della Serail più importante quotidiano italiano che non poteva mancare all’impero di Angelo. Un sogno inseguito per molti anni ma mai realizzato, almeno non da lui. Rizzoli muore nel 1970, lasciando un’azienda fondamentale per l’economia e la cultura italiana. Proprio sul Corriere viene data la notizia con un necrologio di due pagine, un tributo che si concede solo ai più grandi. L’acquisizione del giornale da parte della famiglia Rizzoli sarà formalizzata quattro anni dopo, nel 1974, coronando il sogno di quell’orfano di umili origini e arrivato a portare la cultura nelle case degli italiani, quotidianamente.

Rizzoli è stato protagonista di un cinquantennio di storia italiana, attraversando il difficile periodo fra le due guerre e contribuendo a rifondare l’immaginario nazionale dell’Italia post-fascista. L’insegnamento di Rizzoli non riguarda solo la sua vita, ma anche il suo modello di business. Un modo di agire che unisce la volontà del successo commerciale all’imprescindibile dogma della qualità. Rizzoli ha creato uno spazio solido in cui potessero operare i più brillanti intellettuali del suo tempo, ha selezionato con cura i collaboratori e dato loro modo di sviluppare le proprie idee, portandole sotto gli occhi di tutti. La sua dedizione ha portato un reale beneficio a tutta la società e per questo il suo nome rimarrà indelebile nella storia della nostra cultura: la dimostrazione che, nonostante tutto, l’etica del lavoro può ripagare.

PARCO DEL CITYLIFE

CityLife vanta uno tra i parchi più ampi di Milano, ma soprattutto è ricco di opere d’arte che lo rendono un vero museo a cielo aperto tutto...