Visualizzazione post con etichetta STORIA. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta STORIA. Mostra tutti i post

mercoledì 9 marzo 2022

ISTRUZIONE POPOLARE DEI BIMBI POVERI A MILANO

 

Le prime scuole, dove si dispensavano i primi rudimenti di lettura e scrittura, al di là di alcune sparute strutture per l’accoglienza degli orfani, a Milano, erano il frutto dell’iniziativa privata.

E’ ancora più meritevole se l’iniziativa viene collocata in un periodo in cui nessuno scommette sull’infanzia e sull’adolescenza disgraziata, cioè su un individuo fragile, debole e in balia dei tanti mali della società del tardo medioevo: povertà, abbandono, scarsa consapevolezza, impossibilità di riscatto sociale, sfruttamento della manodopera minorile, solo per citare qualcuna di queste piaghe.
Vediamo allora come, dove e perché nascevano queste iniziative di privati cittadini, spesso facoltosi e con qualcosa da farsi perdonare, sia dalla coscienza sociale sia per senso di rimorso cristiano.
LA SCUOLA NEL BASSO MEDIOEVO
Un esempio è dato nel 1473 dal testamento dell’usuraio e banchiere Tommaso Grassi a favore del Luogo Pio Quattro Marie, attraverso il quale furono fondate le Scuole Grassi. E’ il primo esperimento a Milano di scuola popolare gratuita. Le Scuole Grassi si trovavano in Via Cantù, subito sulla destra entrando da via Orefici, nei locali già usati dalla Taverna della Cicogna.
il retro di questi esercizi si prestassero, per pochi denari e con la complicità dell'oste, per tutta una serie di attività e assembramenti leciti, ma più frequentemente illegali. Nell’atto, rogato da Antonio Zunico notaio delle Quattro Marie, l’uomo di affari specificava che sarebbe spettato ai deputati della confraternita gestire la scuola, retribuendo i docenti (cinque magistri a gramaticha), selezionando gli scolari (con un occhio particolare per i discendenti di casa Grassi), e provvedendo alla manutenzione dell’edificio scolastico. L’istituto prese avvio nel 1482, anno della morte del Grassi: da quel momento i libri contabili del consorzio elemosiniero cominciano a registrare l’ingaggio e il regolare pagamento dei maestri. Vennero soppresse dopo ben tre secoli, nel 1787, per decreto governativo: il loro patrimonio venne incorporato nei fondi da destinare alle scuole elementari statali e la sede della scuola fu venduta all’asta. Dopo la soppressione l’edificio viene venduto e demolito alla fine dell’Ottocento.
Altro caso famoso è quello delle Scuole Taverna (o della Fedeltà): avevano sede nello stesso quartiere di quelle precedenti, accanto alla chiesa di Santa Maria della Rosa, un edificio sacro scomparso per far spazio all’attuale Piazza Pio XI e all'ingresso dell'Ambrosiana. Furono fondate per volontà del banchiere Stefano Taverna, anche queste grazie ad un lascito presente nel suo testamento del 1468 e confermato da quello della vedova del 1478. Rimasero in questo luogo fino al 1615, quando l’edificio è appunto inglobato nell’Ambrosiana. Infatti, tra il 1611 e il 1620, su progetto del Mangone, la biblioteca si allarga incorporando le scuole, che però non chiudono. Si spostano in via Santa Maria Fulcorina, in alcuni locali legati ai Borromeo, fino alla loro soppressione nel 1797, poiché verranno create le prime scuole elementari statali secondo i principi ispiratori della rivoluzione francese portati dalle truppe napoleoniche.
Un’altra bella realtà con scopi educativi è rappresentata dalle Scuole Piatti, così conosciute poiché fondate per volere testamentario di Tommaso Piatti, che però affida la gestione all’Ospedale Maggiore, beneficiario dei beni e della sede, sita in Contrada Sozza innamorata. Si trattava di un vicolo, ribattezzato e più conosciuto, per le sue numerose case d’appuntamento e prima della sua definitiva scomparsa, come Via Soncino Merati. Collegava l’attuale Via S. Paolo con Via S. Pietro all’Orto. Si avviano sin dall’anno 1500, sul modello delle scuole Grassi, di poco anteriori. Vi sono cattedre pubbliche di greco, dialettica, aritmetica, geometria e astronomia, destinati a giovani volenterosi con pochi mezzi. I libri per lo studio di tali discipline erano quelli della biblioteca di Tommaso Piatti lasciati nella stessa sede dove si impartivano le lezioni. Qui grazie ai favori di Filippo Archinto, poi arcivescovo di Milano, nel 1534 inizia ad insegnare geometria, aritmetica e astronomia Girolamo Cardano per 50 scudi l’anno. Le scuole funzioneranno fino al XVII sec.
Alcune possedevano anche una cantina sotterranea dove si stipavano le provviste, appese alla volta per evitare il contatto coi ratti, che erano la popolazione più numerosa, in quei luoghi infestati dall’umidità di risalita o da qualche roggia confinante, dove si riversavano i miasmi delle latrine di fortuna per gli avventori. Di questi chi oltrepassava quel portone sudicio sapeva di entrare in una realtà protetta, come un rifugio per malfattori ma anche luogo di insidie che ti insegnavano a stare al mondo: uscivamo bestemmie, grida ed imprecazioni, ma anche risate, urla, discorsi e maldicenze. Era rappresentazione teatrale viva dei milanesi del rione, dove le ingiurie si fondevano ai silenzi, ai sorrisi ed alla disperazione, ma dove si poteva anche assistere ad alcune forme di arte ormai perduta, come quella dei cantastorie, dei menestrelli dal dialetto verace, e dei barbapedana (come si chiamarono fin dal XVII sec), la cui memoria è tramandata dagli scritti di Carlo Maria Maggi e più tardi da Arrigo Boito.
Questi erano musicisti di strada, così bravi a intrattenere gli avventori di locande e ritrovi, mescite, vinerie, da essere ancora ricordati nella memoria popolare.
le più famose Scuole della Cannobiana (anch’esse scomparse, poiché site sull’isolato limitrofo a quello su cui venne poi costruito il Teatro Lirico, già della Cannobiana appunto). Prendevano il nome dal fondatore, Paolo da Cannobio, che attraverso un lascito le aveva istituite con sede sull’attuale via omonima nel 1554. Vi si davano due letture quotidiane, una di morale, l’altra di dialettica. Nel 1563, Alessi ne progetta un ampliamento con l’oratorio annesso. Nel 1579, l’amministrazione dell’Ospedale Maggiore vi unisce in questo luogo anche le scuole Piatti di cui abbiamo parlato più sopra, in un’ottica di razionalizzazione delle risorse. Per motivi affini circa un secolo dopo, nel 1671 lo stesso Ospedale Maggiore ne decreta la chiusura, perché i costi superano le entrate. Nel 1770, in piena era asburgica, viene emanato il Dispaccio Regio che incamera i proventi dell’eredità Cannobio, sopprimendo le Scuole Cannobiane a favore delle Scuole Palatine (posizionata però a rango di Università) saldamente radicate sulla Piazza Mercanti. Saranno così poi assorbite nel 1778 dalle Scuole Arcinbolde (il Collegio dei Barnabiti presso Piazza Sant’Alessandro).
La prima scuola religiosa
La Chiesa non assisteva mai incurante a questi fenomeni, anzi dove poteva si muoveva con spirito emulativo e sempre con un occhio vigile sui cambiamenti sociali che potevano sottrarre controllo ed egemonia sulle povere anime facilmente plasmabili. E’ così che presso lo scomparso Oratorio trecentesco di S. Giacomo dei Disciplini (all’altezza di Via Manzoni 40/42, dove c’è oggi la galleria e il Teatro Manzoni), certo Castellino da Castello, nei primi decenni del XVI sec., fonda scuole per l’infanzia disagiata. Si tratta di un progetto che pur avendo una precisa connotazione religiosa, giunge in ritardo di circa 150 anni rispetto alle prime iniziative private: sorgono anche queste con fini filantropici e per volontà testamentaria di un benefattore. Si cominciò ad insegnare il catechismo ai fanciulli, dando così origine a quelle che nel 1536 sarebbero diventate le Scuole della Dottrina Cristiana, riconosciute e incoraggiate da Carlo Borromeo. Si trattava di una scuola festiva per bambini poveri, che oggi potremmo associare all’idea dei primi oratori modernamente concepiti.
Come tutte le realtà finora viste, all’inizio, l’iniziativa nasce come frutto di volontà laicale: un cardatore di lana, Francesco Villanova, detto il Pescione, è colui che per primo raccoglie l’anelito di Castellino. E laici saranno anche i primi collaboratori: Rinaldo Lanzi, fabbricatore di speroni; Gianangelo Nava, forgiatore di spade; Giuseppe Manzoni, fabbricante di tovaglie, Giulio Basanello, maestro di scuola. Tutti avevano uno scopo: andare in primo luogo a cercare i ragazzi di strada, raccoglierli e invitarli a un’esperienza di divertimento, di festa, di gioco e insieme di formazione, per istruirli nel catechismo.
Va anche sottolineato che non c’era all’inizio un vero e proprio progetto. Solo dopo tre anni di attività, nel 1536, ci si decise a fondare una Compagnia, al modo delle Confraternite. L’opera all’inizio fu accolta con diffidenza, tanto che troviamo tra i contestatori anche dei parroci. Ma accanto alle difficoltà, però, andava crescendo anche l’apprezzamento. La diffusione tra la povera gente ne comprovava la potenza del messaggio: nel giro di trent’anni nella sola Milano si contano ventotto scuole, con duecento operai a servizio, per un totale di duemila ragazzi.
Nel 1548 Castellino da Castello stabilì le “Regole” per l’organizzazione della confraternita. Da Milano le “Compagnie della Dottrina Cristiana”, si diffusero in tutta Italia, sempre grazie all’infaticabile opera del fondatore. La Scuola si amministrò con le rendite derivanti da un beneficio chiericale sino al 1574, quando l’arcivescovo Carlo Borromeo ne affidò l’organizzazione e il coordinamento agli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo. Nel 1577 l’arcivescovo, intuendone le potenzialità contro il dilagare delle idee protestanti, lo eresse addirittura come “Ente” con propria personalità giuridica, come la “Compagnia”
. Dopo aver fatto ristampare l’Interrogatorio di Castellino predispose le Constituzioni et Regole della Compagnia et scuola della Dottrina Cristiana, dove era precetto insegnare ai fanciulli provenienti dalle classi meno abbienti, oltre che il catechismo (non a caso ancora oggi detto Dottrina) anche a leggere e a scrivere. Una delle prime edizioni del catechismo in lingua italiana, con annesse lodi in musica, venne pubblicato a cura di S. Carlo a Milano nel 1576. Seguirono una serie di edizioni stampate a Torino (1579-80-83-84) a Genova (1590) a Como (1596-1599-1605 e seguenti) ecc.
In seguito, governando la diocesi l’arcivescovo Federico Borromeo (1595-1631), confinò in qualche modo gli scolari di S. Giacomo all’interno delle vetuste mura di Via Manzoni, ove il rettore del Seminario avrebbe anche celebrato messa. Per volontà testamentaria di un benefattore, all’epoca in cui scriveva il Latuada (1737) la Scuola offriva anche la dote nuziale a tre ragazze povere e due volte l’anno distribuiva ai poveri pane e vino. Nel 1778 la Confraternita della Carità del Prossimo assorbe i compiti della Dottrina Cristiana, e nel 1786, nonostante le massicce soppressioni degli enti religiosi da parte degli Asburgo, ne viene sancita la sopravvivenza (una delle poche). Ma nello stesso anno la chiesa di S. Giacomo viene distrutta.
Vi era però una targa che qui ne riconosceva i meriti e i luoghi, rimossa dopo la fine della II Guerra Mondiale e non più ricollocata. Oggi la targa che ricorda Castellino da Castello come “difensor d’Italia delle eresie d’oltralpe” si trova in Via S. Tomaso 2 dietro l’abside della chiesa omonima.
Anche nel Duomo di Milano c’è una lapide che gli riconosce il merito nell’educazione pubblica cittadina.

martedì 1 marzo 2022

NUMERAZIONE TERESIANA

E’ solo una curiosità, ma sicuramente non sono in tanti a conoscerla.
Girando per Milano, capita, osservando la facciata ed il portone di una vecchia casa, di scoprire la presenza di due numeri civici totalmente diversi fra loro, sia come forma che come numero. Ovviamente una, dev’essere la vecchia numerazione (usualmente scolpita nella pietra), l’altra, quella attuale, la classica targhetta rettangolare grigio scuro, con i numeri bianchi in rilievo (tipica del Comune di Milano).
In effetti, anche se la cosa sembra incredibile, la numerazione delle case e la denominazione delle strade, sono delle pratiche abbastanza recenti, vista la ridotta dimensione della città fino agli inizi dell’Ottocento.
Come si faceva allora a recarsi in una certa casa?
Beh, chi non era del posto, era costretto a chiedere informazioni e colui che rispondeva, non poteva che indicare approssimativamente la vicinanza ad un monumento, alla parrocchia del quartiere di appartenenza, oppure facendo riferimento a caratteristiche particolari dell’edificio che si stava cercando (insegne, balconi, fregi ecc.)
Se non per i monumenti che la contraddistinguevano, Milano, con gli occhi di oggi, era poco più di un grosso centro, con tante piccole borgate disseminate qua e là nell’area, all’esterno del centro storico, compresa fra le vecchie mura romane e le mura spagnole. Le case in quell’area, erano per lo più isolate e tutta la zona pullulava di monasteri con le loro chiese, con ampi spazi tutt’intorno, usati come orti o giardini (es. Borgo di Sant’Andrea, Borgospesso, Borgo di Santo Spirito ecc.)
Le strade avevano un nome solo sulla carta, poichè tale nome non era individuabile dalla presenza di una targa, in corrispondenza della strada.
Furono proprio gli austriaci che, durante il periodo della loro dominazione sul Lombardo-Veneto, avendo la necessità di fare dei controlli capillari sulla popolazione residente, per poter individuare più facilmente i sovversivi, cominciarono a mettere un po’ di ordine in questo settore. Non che Milano facesse eccezione rispetto ad altre località, era semplicemente una ‘consuetudine’ che vigeva ovunque a Vienna, a Parigi, a Berlino ecc., data anche la dimensione ridotta delle città.
Dal 1786 la situazione cambia
Fu infatti nel 1786 che, il ministro austriaco Wilczeck, per disposizione di Giuseppe II, imperatore d’Austria, incaricò il marchese di Chignolo, Ferdinando Cusani Visconti Botta Adorno, allora ‘giudice delle strade’ a Milano, di provvedere all’affissione di una targa, ad ogni angolo di strada, col nome della rispettiva via e di assegnare a tutte le case, un numero civico univoco.
Chi era il Giudice delle strade
Il Giudice delle strade, istituzione già esistente in epoca signorile, era nominato dal vicario e dai dodici di provvisione, ma vincolato all’approvazione e al riconoscimento da parte del Governatore. Era gerarchicamente sottoposto all’autorità del Magistrato straordinario (e in seguito a quello camerale), estendendo la propria giurisdizione a tutto il Ducato. Uno dei maggiori compiti ad esso delegati, consisteva nella compilazione del riparto delle “fatte”, cioè delle tratte di strada la cui manutenzione doveva essere assegnata ai proprietari delle terre che componevano il Contado milanese. Tutti gli ufficiali che dipendevano da lui, erano inoltre autorizzati a curare la pulizia delle strade cittadine e a controllare che le vie, o qualsiasi altro spazio pubblico, non venissero occupati abusivamente.
Come veniva assegnata la numerazione
Il criterio di assegnazione della numerazione era, per noi oggi, tanto singolare, quanto incomprensibile. Venne chiamata “numerazione teresiana”, perché utilizzata nel periodo di reggenza di Maria Teresa d’Austria. Il criterio adottato era quello chiamato ‘sistema progressivo unico’.
La particolarità del criterio stava in questo: assumendo che il num. 1, venisse, convenzionalmente, attribuito al Palazzo Reale (centro del potere politico), ed anche centro della città, si procedette alla numerazione degli edifici in senso circolare antiorario, secondo una spirale ideale, che s’allargava man mano dal centro, verso la periferia, entro la cerchia delle mura spagnole. Infatti, osservando attentamente, oggi capita di trovare in centro, edifici d’epoca, con una numerazione bassa, mentre man mano che ci si allontana dalla zona centrale, la numerazione sale progressivamente.
Spesso, andando in giro, tante case d’epoca, che dovrebbero avere la doppia numerazione, hanno solo quella attuale, perché i proprietari di allora, insofferenti del regime austriaco, hanno provveduto cancellarne la memoria, non appena se ne sono andati dalla città.
La documentazione della ‘Pianta di Milano’, pubblicata nel 1787, riporta come ultimo numero il 5314. Quindi sino ad allora, si può dire che Milano avesse in tutto, 5314 case.
La nuova numerazione nel 1830
Quarantatré anni dopo, nel 1830, venne fatto un nuovo censimento municipale che riordinò i numeri civici progressivi, arrivando a contare 5628 case. Questo sistema, essendo Milano una città a pianta ‘circolare’, poteva sicuramente essere valido per censire capillarmente tutte gli edifici esistenti, a scopi puramente catastali, congelando la situazione ad una certa data. La cosa assurda di questo sistema, è che nessuno ha tenuto conto che la città era in continua trasformazione. Per cui, la costruzione di un nuovo edificio fra due già esistenti, lungo la medesima strada, comportava automaticamente, secondo questo sistema, l’assegnazione di un nuovo numero civico non coerente con quelli già attribuiti alle due case vicine (si usava la numerazione progressiva, come si usa oggi, per le targhe delle automobili). Quindi poteva capitare, camminando per strada, di trovare un numero civico totalmente sballato fra due numeri progressivi consecutivi (es. 750-4867-751). Pura follia! Ci vollero diversi anni prima che, a qualcuno, venisse la luminosa idea di attribuire alla nuova costruzione, sorta fra altre due esistenti, la numerazione di una delle due, con l’aggiunta di una lettera (es. 750-750A-751. 
La numerazione attuale fatta dopo l’unità d’Italia
Fu solo dopo l’Unità d’Italia, che, nel 1866, di fronte alla obiettiva difficoltà che tale sistema numerazione progressiva comportava, si decise di adottare il sistema di numerazione attuale, decisamente più semplice ed efficiente. Questo, anche in considerazione del fatto che, con la soppressione, nel periodo napoleonico, di diversi ordini religiosi, nel tempo si era reso disponibile un amplissimo patrimonio immobiliare da gestire in maniera più semplice. Il sistema attuale prevede una numerazione per via, con i numeri pari sulla destra, venendo dal centro.
A Venezia resta la numerazione teresiana
In tutto il Lombardo-Veneto sotto dominazione austriaca, solo Venezia ha incredibilmente mantenuto invariata a tutt’oggi la vecchia numerazione teresiana ripetuta per i sei Sestieri (San Marco, Cannaregio, Castello, Dorsoduro, Santa Croce, San Polo) più la Giudecca. Per questo motivo. è così difficile raccapezzarsi per la città alla ricerca di un indirizzo, persino per i postini, che impazziscono quando devono recapitare la corrispondenza!
Ma Venezia è sempre Venezia … ed è anche questa piccola ‘diversità’, oltre ovviamente alla bellezza dei suoi canali, dei suoi ponti e dei suoi monumenti, che contribuisce a renderla unica!

sabato 26 febbraio 2022

RADICI STORICHE DELLA MODA A MILANO

Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, a Milano legate a ragioni di rappresentanza politica si afferma l'industria artigianale del lusso nell'abbigliamento e negli arredi.

Allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza.

I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.

Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.

Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad  – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.

Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461.

L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali.  Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.

Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.


venerdì 25 febbraio 2022

IL MONDO SACRO DEGLI INSUBRI

Iniziamo la storia del Sestiere di Porta Romana… da quando non c’era, ossia dal VI-V sec. a.C., quando c’era solo un santuario – il medhelan – per il raduno delle tribù insubriche in occasione delle feste annuali. In questa zona – oggi densamente costruita - c’erano prati, un laghetto, un fiume - il Seveso – e alcuni rigagnoli, una strada che in parte costeggiava il fiume e alcuni viottoli di campagna, uno spazio per i giochi circondato da gradinate in legno, un piccolo cimitero e qualche trattoria con cibi cotti da vendere: suona molto simile a un moderno raduno per concerto? Se avete notato “il cimitero”, avete intuito che è tutta un’altra storia.
Cosa aveva allora di così interessante questa zona, da aver conservato per duemila e più anni un carattere sacro? Corrispondeva al punto a Sud-Est dove dal santuario si osservava la levata eliaca di Antares, la stella rossa della costellazione dello Scorpione, che brilla alla fine della Via Lattea ed era perciò considerata dai Celti una porta per l’Aldilà.
La levata eliaca di Antares segnava la fine dell’estate (poi di S. Martino) e il capodanno celtico. Si apriva, per così dire, la porta dell’altro mondo, si onoravano i defunti e si scongiurava la morte con feste orgiastiche. Le celebrazioni del capodanno avevano tre giorni preparatori, dove si tenevano i giochi che avrebbero selezionato i guerrieri più valorosi, il giorno del Capodanno, tre giorni finali per i giudizi della corte suprema, gli scambi, i nuovi contratti.
In questo periodo era ancora naturale che vita e morte fossero due parti dello stesso insieme, come il mantello di S. Martino, che si assunse molto più castamente l’onere di ricordare la festa in età cristiana.
La strada principale di cui abbiamo parlato è il corso di Porta Vigentina, che proveniva da Opera, Locate e Siziano, dove si trovava il confine naturale con il territorio di Laevi e Marici, segnato da una fascia di risorgive che creava le paludi. Territorio ricco d’acqua e perciò ambito dalle prime popolazioni che si stanziarono in Lombardia, ancora amanti delle paludi. Superata questa zona paludosa di confine, si proseguiva per Pavia.
La strada non si fermava come oggi alla Crocetta in corso di Porta Romana, ma proseguiva fino al medhelan, passando attraverso l’attuale Università Statale (Ca’ Granda). Torniamo quindi sulla strada e percorriamola da corso di Porta Vigentina verso piazza S. Stefano. Alla nostra destra (all’altezza del Policlinico) avremmo visto una necropoli, divisa tra quella che gli archeologi oggi chiamano di S. Antonino e l’altra di S. Stefano.
Alla nostra sinistra avremmo avuto un prato che costeggiava un laghetto attraversato da un ponte mobile. Era un laghetto naturale, niente più che un allargamento del letto del Seveso, spesso ridotto a un pantano. Da S. Stefano la strada costeggiava il Seveso e proseguiva fino a piazza Fontana, via S. Paolo, piazza Meda, via Morone, dove si congiungeva con l’altra strada che portava al medhelan, la via Manzoni.
Nel prato, dove oggi si trova il cortile maggiore e il chiostro meridionale dell’Università, si costruivano le gradinate lignee e ci si radunava in attesa che gli atleti, attraversato il ponte rituale, iniziassero i combattimenti. Non li avremmo considerati molto sportivi, perché – soprattutto in occasione del capodanno – combattevano bendati, con una mano legata dietro la schiena e all’ultimo sangue. Si trattava infatti di un sacrificio spontaneo e rituale per placare con il sangue i defunti, secondo un’usanza comune a tutti gli indoeuropei. Erano detti andebata. Le anime dei trapassati in quell’anno stazionavano davanti alla porta di Antares in attesa di procedere oltre, ma questo passaggio richiedeva un’energia che le anime più deboli di vecchi e bambini o malati gravi non potevano avere, per cui si paventava il rischio che ci fosse un riflusso di morti nel mondo dei vivi. I combattenti che si immolavano nei giochi erano forti e potevano presentarsi all’appuntamento con l’apertura dello “stargate” di Antares a guidare senza fallo le schiere di deboli trapassati
Gli eroi sacrificati erano poi sepolti con tutti gli onori nella vicina necropoli. Nel 1885 nel cortile della chiesa di S. Antonino si rinvennero a – 2,50 m alcune tombe a cremazione con modesti anelli a globetti e fibule a sanguisuga, tipici della tarda fase di Golasecca (410-350 a.C.): tutto qui quello che rimase di questi eroi in viaggio per Antares?
Sempre in occasione del raduno di capodanno si portava a casa il nuovo fuoco del falò sacro, si pronosticavano i destini dell’anno che veniva, si uccidevano gli animali che sarebbero stati consumati in inverno, si consumavano i nuovi cereali.
Anche il periodo coincidente con la mietitura di agosto era importante; il raduno estivo durava quindici giorni e, oltre ai combattimenti, si gareggiava in onore dello spirito del grano reciso facendo correre le ruote infuocate.
Il rito delle ruote o covoni infuocati è documentato ovunque e si è perpetuato in età cristiana nei falò di S. Giovanni Battista. A Milano è legato alla zona di S. Vincenzo in Prato, ma per una distorsione etimologica i nostri cultori di storia locale hanno immortalato questo rito anche nella zona del Verziere. Che operazione hanno fatto i nostri storici?
La zona del Verziere in età longobarda aveva preso il toponimo di “rauda” (terra da bonificare). Ricordiamo che a oriente della Vigentina c’era una necropoli, nella quale si erano salvate dalle distruzioni due cappelle, S. Stefano già degli Innocenti e S. Giacomo; per distinguerle dalle altre omonime le due cappelle acquisirono il toponimo in rauda.
Perso nei secoli il significato dell’etimologia longobarda, ma vivo nell’inconscio collettivo il rito delle ruote infuocate e dei combattimenti, dal IX secolo le due chiese vennero associate alla lotte fra ariani e cattolici nel IV secolo, soprattutto al tempo del vescovo Ambrogio, quando il sangue sparso dai cattolici aveva formato delle ruote infuocate che si erano fuse nelle facciate delle cappelle. Erano trascorsi circa mille anni e ci volle il governo dei Franchi a Milano perché si fermassero sulla carta questi aerei archetipi celtici.
Nella chiesa di S. Maria del Paradiso in corso di Porta Vigentina si trova la famosa pietra del Tredesin de Mars, reperita nel cimitero di Porta Orientale presso S. Dionigi e qui inserita nel pavimento della navata centrale. Si tratta di una ruota di pietra, con un buco in mezzo, dal quale si dipartono tredici raggi. Doveva essere una pietra tombale, perché il foro nella pietra è detto in Oriente “porta della liberazione”, dalla quale passa l’anima del defunto. La pietra entrò nel culto cristiano grazie all’associazione con l’agiografia di S. Barnaba, protovescovo milanese.
In un santuario celtico potevano mancare riferimenti al culto delle pietre? Non stiamo parlando di menhir o di massi erratici considerati sacri, ma di semplici pietre che erano diventate oggetto di culto e che rimasero nella devozione milanese per secoli.
Nella zona che stiamo analizzando c’era la pietra di S. Vittorello, ricordata con una lapide posta in facciata della chiesetta. Si trattava di un sasso abbastanza grande da permettere ad Ambrogio, in fuga da Milano per sottrarsi all’elezione a vescovo, di riposarsi in attesa dell’alba.
Un’altra pietra appartenente all’agiografia ambrosiana era a S. Nazaro in Pietra Santa, chiesa posta all’altezza di via Rovello e distrutta nel 1888 per l’apertura di via Dante. Qui la pietra era conservata all’interno della chiesa e, a seconda delle tradizioni, sarebbe servita a S. Ambrogio da inginocchiatoio oppure da predella per scacciare gli ariani. C’è anche un “giallo” legato a questa pietra, che venne scippata dalla Confraternita di S. Agata in S. Nazaro: in un documento del 1579 si ingiunge alla Confraternita di restituire la pietra santa alla Confraternita di S. Gerolamo, che dall’XI secolo gestiva la chiesa di S. Nazaro in Pietrasanta. Ora si trova nel battistero di S. Vincenzo in Prato.
Questi episodi collegati all’agiografia ambrosiana ci evidenziano come, fino al XVI secolo, il culto delle pietre fosse ancora vivo e persistente nell’inconscio collettivo milanese. Soprattutto la pietra di S. Nazaro è indicativa della continuità simbolica, perché salire su una pietra aveva un preciso significato carismatico. Nelle cerimonie celtiche di successione, sulla pietra era inciso un paio di piedi appartenuti al primo capo; durante la cerimonia d’insediamento, il capo saliva sulla pietra e s’impegnava a seguire le orme dei suoi predecessori.
Tutte le pietre di tradizione celtica vennero incluse in agiografie cristiane e rimasero oggetto di culto della popolazione indigena.
Altro elemento archetipico e risalente al mondo celtico è “il ponte”. Una leggenda tramandatasi per secoli voleva che dal Bottonuto partisse un ponte che, col trascorrere del tempo, diventò sempre più lungo.
La leggenda risultava incomprensibile, finché negli anni Trenta del secolo scorso gli archeologi non scoprirono l’esistenza del laghetto naturale creato dal Seveso, per cui al Bottonuto poteva trovarsi il capo di ponte per attraversare il laghetto e raggiungere l’area dei giochi. Dal momento che una pozza d’acqua, a volte in secca dato il carattere torrentizio del Seveso, poteva essere tranquillamente aggirata via terra, è naturale pensare che il ponte svolgesse una funzione rituale e magica: la sua traversata doveva essere precaria e risultare psicologicamente lunghissima, perché il ponte rimase nella memoria collettiva lungo fino a Nosedo! Superata la difficoltà del ponte, il concorrente a guidare le anime oltre Antares poteva accedere agli andebata.
La cosa più affascinante è che il ponte era noto nel medioevo come Pons Necis, che rimanda al latino necare, uccidere, far morire fra atroci tormenti, spegnere, soffocare. Stiamo facendo etimologia alla Isidoro di Siviglia?
Per spiegare la valenza degli attraversamenti rituali lasciamo la parola a Renato Del Ponte:
“Il ponte è un elemento archetipico, il panthah vedico, ossia il cammino angoscioso e pericoloso che solo pochissimi sono in grado di percorrere senza aiuto, ponte collegante le due rive del cielo e della terra separate dalle acque della manifestazione”
Il canonico di S. Nazaro Carlo Torre raccoglie la leggenda e la riporta così: “Là dove s’innalza quell’obelisco, chiamato Crocetta del Bottonuto, eravi quel famosissimo ponte costrutto d’archi, la cui lunghezza stendevasi smisurata su per la strada Romana, e chiamavasi Arco Romano, e secondo Donato Bosso arrivava fino a Noceta.”
Il Torre mette insieme la leggenda del ponte con la presenza dell’arco trionfale di Porta Romana del IV secolo e sembra trasformare la passerella rituale in un imponente ponte romano ad archi che, arrivando fino a Nosedo, somiglia a un acquedotto.
Come si sa, Milano è la pura esemplificazione del principio “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, perché dove un tempo era il ponte rituale celtico, in età viscontea si trovò un passaggio sopraelevato (come quello di Vigevano), che collegava i palazzi viscontei alla Rocca di Porta Romana… ma questa è un’altra storia.
Anche i pozzi sacri sono entrati nel nostro patrimonio di leggende, soprattutto per quanto riguarda l’affogamento rituale. Per la tradizione di questo rito dobbiamo ringraziare il cristianesimo con le agiografie, come nel caso di S. Calimero, vescovo di Milano, affogato in un pozzo dove poi sorse la chiesa a lui dedicata e ancora presente nell’omonima via.
Secondo il De situ civitatis Mediolani, la cronaca medievale che riprende l’agiografia, il pozzo si trovava presso il tempio di Apollo, traduzione romana di Belenos, il dio celtico “luminoso” che curava con l’acqua e che è da noi ricordato con una lapide (C.I.L. 5762). In luogo del tempio, sempre secondo la leggenda, sarebbe sorta la chiesa di S. Apollinare, oggi scomparsa.

MILANO DALLE SUE ORIGINI

Il primo insediamento umano sembra risalire all’età del Bronzo, intorno al II millennio a. C. ma sembra che l’origine di Milano la si debba agli Insubri, popolo di cultura celtica provenienti dalla Gallia.
Secondo quanto riportato dallo storico romano Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), il primo insediamento fu stabilito nel mezzo della pianura Padana intorno al 600 a.C. da una tribù di Galli Biturgi condotti da Belloveso, sconfiggendo le popolazioni etrusche.
Tito Livio si basava su una leggenda, cara poi alla tradizione, secondo cui il nome deriva dal rinvenimento da parte di Belloveso di una scrofa semilanuta (in medio lanae) che fu vista come segno propizio per la fondazione di un villaggio, questa poi divenne il simbolo della Milano gallica fino al IV secolo.
Ma sembrerebbe più plausibile che il nome latino che indicava la città, Mediolanum, derivi da un toponimo latino-celtico (il latino medio = di mezzo e il gallico lan = terra) che indicava tutti quei i villaggi che si trovavano in mezzo a principali vie di comunicazione, anche altri villaggi della Gallia riportavano infatti lo stesso nome.Un altra ipotesi si basa su quanto riportato dallo storico greco Polibio (200 – 118 a.C.), che parlava di un villaggio dove sorgeva un “medelan“, un tempio celtico dedicato alla divinità gallica, Belisama, che egli identifica con Atena o Minerva.
Secondo quanto riportato dallo storico romano Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), il primo insediamento fu stabilito nel mezzo della pianura Padana intorno al 600 a.C. da una tribù di Galli Biturgi condotti da Belloveso, sconfiggendo le popolazioni etrusche.
Tito Livio si basava su una leggenda, cara poi alla tradizione, secondo cui il nome deriva dal rinvenimento da parte di Belloveso di una scrofa semilanuta (in medio lanae) che fu vista come segno propizio per la fondazione di un villaggio, questa poi divenne il simbolo della Milano gallica fino al IV secolo.
Ma sembrerebbe più plausibile che il nome latino che indicava la città, Mediolanum, derivi da un toponimo latino-celtico (il latino medio = di mezzo e il gallico lan = terra) che indicava tutti quei i villaggi che si trovavano in mezzo a principali vie di comunicazione, anche altri villaggi della Gallia riportavano infatti lo stesso nome.Un altra ipotesi si basa su quanto riportato dallo storico greco Polibio (200 – 118 a.C.), che parlava di un villaggio dove sorgeva un “medelan“, un tempio celtico dedicato alla divinità gallica, Belisama, che egli identifica con Atena o Minerva.
Secondo una leggenda, il nome deriva dal rinvenimento da parte di Belloveso di una scrofa semilanuta (in medio lanae) che fu vista come segno propizio per la fondazione di un villaggio.

UN PEZZO DI MILANO IN SVIZZERA

Ci fu un tempo in cui il Ducato di Milano si estendeva fino in Svizzera, ma non solo fino al Canton Ticino, come molti di noi pensano, ma ben più su, coprendo un’area vastissima che dai Grigioni, arrivava a Cantoni interni come quelli odierni di Uri e Berna, fino all’intero Vallese.
In realtà le radici storiche sono profondissime, ancor più antiche della nascita del Ducato e già nel XIII sec., quando a Milano infuriavano le aspre lotte tra i Torriani e i Visconti per il predomino sui territori ambrosiani, tutta la Svizzera del Sud era integralmente parte dei territori comaschi e quindi della Lombardia. Vari personaggi provenienti da quelle terre erano parte integrante della più influente nobiltà di Milano.
Uno dei più noti era ad esempio tale Simone Orelli, noto anche come Simone da Locarno. Partecipò alle più importanti imprese militari determinanti nelle lotte, prima citate, ai tempi del libero Comune di Milano e anche di Como, nel XIII sec.. Divenne famoso per le grandi capacità tattiche e soprattutto per il carattere indomito, leggendario già da vivo. Vicino alla fazione gravitante intorno alla famiglia Visconti, ne favorì il sorgere della nuova Signoria. Questi si era già distinto sulla scena politico-militare, attorno al 1240, quando rettore del Capitolo Milanese, a Biasca insieme col fratello (o il padre?) Enrico, organizza la reazione contro l’imperatore tedesco Federico II, che vuole mettere fine all’indipendenza delle realtà comunali dell’Italia settentrionale: nel 1242 infatti Bellinzona, che era stata occupata dalle truppe tedesche, viene liberata da truppe antimperiali capitanate proprio da Simone.
Dopo l’occupazione da parte di Milano delle terre sotto il Monte Ceneri ed i valichi limitrofi, di influenza comasca e filo-imperiale, la guerra che ne deriva vede di nuovo distinguersi Simone: a Gorgonzola riesce a bloccare truppe dirette contro Milano e, secondo quanto riporta lo storico Giulini, a catturare persino il figlio dell’imperatore Federico II, Re Enzo. Tale impresa viene premiata, a conclusione (momentanea) della guerra tra Como e Milano, nel 1249: il trattato di pace riconosce a Como la signoria su Bellinzona e Locarno ma agli Orelli viene riconosciuta la rettoria delle Tre valli ambrosiane di diretta proprietà del Capitolo Ambrosiano, sin dal X sec..
La situazione, dopo un periodo di apparente calma precipita quando scoppia a Milano la questione del soglio arcivescovile: i Torriani, che ormai hanno occupato tutte le cariche più importanti della città del Nord Italia, pretendono che anche la carica di Arcivescovo di Milano sia coperta da un loro parente (Raimondo Della Torre, già vescovo di Como); mentre il Papa, in oltraggio alla nuova politica filoimperiale dei Torriani, nomina Arcivescovo Ottone Visconti. I Torriani reagiscono, impedendo di fatto a Ottone di insediarsi sulla cattedra milanese ed è, nuovamente, la guerra civile. Gli scontri raggiungono naturalmente anche i possedimenti dell’Arcivescovado nei territori ticinesi ed è proprio in quest’occasione che Simone viene fatto prigioniero, sul Lago di Lugano, nel 1265. Per lui inizia un incubo che durerà anni e anni di umiliazioni e privazioni: si dice che i Torriani l’avessero appeso in una gabbia sospesa alle mura del Broletto di Milano, esposto al pubblico ludibrio, quotidianamente, per dodici anni, e che, dal canto suo, Simone resistesse con una forza d’animo eccezionale agli insulti e alle prove fisiche.
Non si capisce come l’uomo abbia potuto sopravvivere così tanto tempo in quelle condizioni, tanto da ipotizzare che la vicenda sia legata ad un corpus di leggende sorte attorno al condottiero; ma pare certo che la prigionia non minò lo spirito battagliero dell’uomo soprattutto dopo il suo rilascio, in seguito ad uno scambio di prigionieri, in cui era compreso certo Accursio Cotica, notabile milanese, uomo evidentemente molto importante per il regime dei Torriani. Probabilmente fu grazie al suo consiglio che l’offensiva viscontea, si spostò più a Nord, nel tentativo di forzare i confini settentrionali del Contado di Milano: la Battaglia di Germignaga rappresenta la prima tappa (fallimentare) dell’impresa, culminata poi nella fortunata Battaglia di Desio, che solo nel 1277, risolse definitivamente l’annosa questione del conflitto tra Visconti e Torriani a favore dei primi. A quel punto i Torriani sconfitti e cacciati da Milano, ripararono proprio nei confini più a nord, nel Mendrisiotto e nel “Malcantone”, lascandosi dietro di sé un’ondata di morte e distruzione che non risparmiò, oltre ai loro possedimenti cittadini, nemmeno l’allora ancora fiorente città, di origine romana, Castelseprio (VA).
Così la Lombardia e i Visconti intrecciano indissolubilmente i loro destini e tra la fine del Trecento e i primi anni del Quattrocento, gli enormi possedimenti del biscione, sotto Gian Galeazzo raggiungono la massima espansione territoriale. È il più grande e potente stato dell’Italia di allora, e per la prima volta numerose città e borghi sono aggregati sotto una sola signoria. Il dominio dei Visconti va dal Canton Ticino alle Marche, e si spinge fin sotto le mura di Firenze! Suoi sono in Svizzera anche la parte dei Grigioni di lingua italiana (Val Mesolcina, Val Bregaglia, Val Poschiavo e Val Calanca). Nel 1395, Gian Galeazzo Visconti ottenne l’investitura imperiale con titolo ducale su Milano sancendo definitivamente la sua signoria anche il potere acquisito dalla sua famiglia in oltre cent’anni. Si dice che i territori soggetti al suo dominio fruttassero a Gian Galeazzo in un anno – oltre la rendita ordinaria di 1.200.000 fiorini d’oro – altri 800.000 di sussidi straordinari. Mezzi straordinari che fecero pensare anche ad un’impresa come quella del Duomo (già dal 1386!)
Dopo l’inaspettata morte del primo duca (3 settembre 1402), si assistette allo smembramento della compagine statale viscontea e anche alla perdita di importanti roccaforti in territorio svizzero. Nel 1403 si ha primo atto di dedizione della Leventina a Uri e Sottoselva. Nel 1419 i Sacco cedono Bellinzona ai tre cantoni. Bisognerà così aspettare la successione del terzo duca Filippo Maria, dopo accanite lotte, per reiniziare un processo lento e complesso di recupero dei territori già sottoposti al dominio paterno, che raggiunse l’apice nel 1422. In quell’anno si assiste peraltro alla battaglia di Arbedo, con cui l’esercito del Ducato di Milano, guidato dal Conte di Carmagnola, sconfigge l’esercito svizzero, così riconquistando i possedimenti elvetici del versante padano delle Alpi.
Ma nonostante la memorabile vittoria quest’amena porzione della Lombardia incuneata nelle Prealpi lombarde e gravitante attorno al lago di Lugano, dopo la morte dell’ultimo Visconti, avvenuta nel 1447, risulto fatua. Infatti, nonostante un’ inutile quanto eroica resistenza dei valorosi valligiani abbandonati alla loro sorte, a seguito della battaglia di Giornico, vinta dagli Svizzeri nel 1478, dopo esser calati a sorpresa nelle valli, questo angolo di Lombardia soffrì, per rappresaglia, lunghe pene, ridotto allo stato di schiavitù feudale senza diritti, almeno fino al periodo Napoleonico (per ben più di trecento anni!). Tra il 1496 e il 1521 la Svizzera riacquista gli territori ducali che oggi ne segnano i confini.
Sul castello visconteo di Lugano raso al suolo nel 1512 da parte degli svizzeri, fu costruita la villa Ciani, oggi adibita a Museo e parco pubblico con vista panoramica sul lago. Per ironia della sorte il terreno e il primo nucleo della costruzione, che conosciamo oggi, fu acquistata e ristrutturata nel 1840 dai ricchi fratelli ticinesi Filippo e Giacomo Ciani, benemeriti del Risorgimento e filantropi, i quali l’adibirono a punto d’incontro fra i patrioti italiani rifugiati in Svizzera e i ticinesi ansiosi di partecipare alle azioni attive nella penisola, molte delle quali architettate proprio su loro iniziativa.

AUREA REPUBBLICA AMBROSIANA

Aurea Repubblica Ambrosiana, anche spesso solo Repubblica Ambrosiana, è il nome con cui è chiamato il governo repubblicano creato a Milano nel 1447 da un gruppo di nobili e di giuristi dell'università di Pavia in seguito al vuoto di potere creatosi con la morte di Filippo Maria Visconti e che terminò, tre anni dopo, nel 1450. Il governo era composto da ventiquattro esponenti della nobiltà cittadina, che furono chiamati "capitani e difensori della libertà della illustre ed eccelsa città di Milano".
Per difendersi dai tentativi di conquista degli Stati confinanti, soprattutto di Venezia, la Repubblica ricorse ai servigi del condottiero Francesco Sforza, signore di Cremona. Questi adottò una politica ambigua, prima sostenendo i Milanesi contro i Veneziani, poi aprendo le ostilità contro la stessa Milano, avanzando inoltre la pretesa al titolo ducale. La Repubblica si arrese allo Sforza, dopo un duro assedio, nel 1450.
L'agonia e successiva morte senza disposizioni testamentarie di Filippo Maria Visconti aveva lasciato aperta la questione della successione del Ducato di Milano.
Il testamento di Gian Galeazzo Visconti disponeva che, in mancanza di discendenza maschile, la linea di successione dovesse essere quella della figlia Valentina. I francesi, forti di questo fatto rivendicavano il ducato per Carlo d'Orléans. Dall'altro lato Alfonso d'Aragona asseriva che il defunto duca avesse scritto nel suo ultimo periodo di vita un testamento a suo favore in cambio di un aiuto contro i veneziani.
Fra gli italiani, oltre allo Sforza, marito della figlia naturale di Filippo Maria, Bianca Maria, rivendicava il titolo Ludovico di Savoia, fratello della duchessa, invece valenti giuristi, fra i quali il Piccolomini, sostenevano che il titolo andasse rimesso all'Imperatore.
Della confusione successoria approfittò un gruppo di cittadini milanesi, che, guidati da Innocenzo Cotta, Antonio Trivulzio, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Vitaliano Borromeo, Mariano Vitali e Giovanni da Ossona, il 14 agosto convocarono il popolo all'Arengo e proclamarono la Repubblica Ambrosiana.
Il governo della repubblica era retto da un consiglio composto da 24 "Capitani e difensori della libertà" (in seguito ridotti a 12) e dal cosiddetto Consiglio generale dei Novecento, erano questi 150 rappresentanti eletti nelle assemblee parrocchiali per ognuna delle sei porte della città.
Inizialmente il governo dei capitani, per evitare prese di potere o il prevalere di fazioni, venne sostituito ogni due mesi creando di fatto grande instabilità e lasciando il potere decisionale al convulso Consiglio dei Novecento.
La repubblica fu chiamata "ambrosiana" in onore di sant'Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397, santo patrono della città.
La nascita della repubblica, che aveva tendenze ghibelline e ostile a Venezia non ricevette l'adesione di altre città del ducato: Pavia e Parma rivendicarono la loro indipendenza, Lodi e Piacenza si unirono a Venezia.
Il 3 settembre 1447, volendo evitare la divisione del ducato, la Repubblica chiamò i suoi cittadini alle armi e chiese aiuto a Francesco Sforza. Nelle sue fila si trovava un Gonzaga, Carlo, signore di Sabbioneta, fratello di Ludovico III, marchese di Mantova. Sforza s'impose come signore di Pavia (17 settembre 1447), prese controllo della flotta milanese e riconquistò Piacenza (16 novembre 1447) dopo un lungo assedio. La città subì saccheggi per cinquanta giorni e migliaia di suoi abitanti furono massacrati. A Milano si iniziò a diffidare dello Sforza. In occasione del rinnovo del consiglio dei capitani, nel marzo 1448, furono eletti dei guelfi e dei rappresentanti del popolo. Presero vita delle trattative segrete di pace con Venezia ma, il 19 aprile 1448, il Consiglio dei Novecento non riuscì a giungere a una decisione. Sforza continuò le sue conquiste: in maggio fu il turno di Vailate, Treviglio e Cassano d'Adda; a luglio la flotta veneziana sul Po venne distrutta a Casalmaggiore; infine a settembre Sforza mise in rotta l'esercito veneziano a Caravaggio, saccheggiando il campo nemico e ammassando un enorme bottino.
A quel punto Sforza compì un voltafaccia e il 18 ottobre 1448 firmò a Rivoltella (attuale frazione di Desenzano del Garda) un patto con Venezia per il quale i veneziani concedevano allo Sforza il comando della guerra per la conquista dei territori tra il Ticino e il Sesia, lasciando alla Repubblica Ambrosiana la regione compresa tra il Ticino e l'Adda. Questo avvenimento provocò inquietudini a Milano. Carlo Gonzaga abbandonò lo Sforza per andare in aiuto della Repubblica e fu nominato il 14 novembre capitano generale del popolo. Nel frattempo Sforza conquistava Pizzighettone e quindi, tra novembre e dicembre, con l'appoggio del marchese del Monferrato Giovanni IV, prese Binasco, Rosate, Abbiategrasso, Varese, Legnano e Busto Garolfo.
Il 27 dicembre 1448 la Repubblica Ambrosiana offrì una ricompensa di 10.000 ducati per la cattura di Francesco Sforza. Questi concluse la sua campagna all'ovest di Milano con la presa di Novara. Con le successive conquiste di Alessandria, Tortona e Vigevano, Milano si ritrovò completamente accerchiata.
Nel gennaio 1449 una congiura ordita da alcuni condottieri contro Carlo Gonzaga fu repressa duramente e i mesi seguenti furono un periodo di terrore per i ghibellini. Il 14 febbraio Parma aprì le porte a Sforza e sciolse il proprio reggimento di difesa.
Come aiuto alla Repubblica, il re di Francia Carlo VII inviò un'armata di 6.000 mercenari francesi, che arrivò a Milano nel marzo 1449. Francesco Piccinino abbandonò Sforza e ritornò a Milano. Il 6 marzo Carlo Gonzaga attacca e respinge le truppe dello Sforza che assediavano Monza. Lo stesso giorno, a Milano, fu siglato un accordo militare tra la Repubblica e il duca di Savoia in cambio di Novara e un altro con il duca d'Orléans in cambio di Alessandria. Perfino il re di Napoli, Alfonso V, promise aiuti a Milano. Nell'altro campo, il signore di Parma, Pier Maria II de' Rossi, offrì allo Sforza 500 cavalli.
Il 22 aprile le truppe francesi furono sconfitte a Borgomanero da Bartolomeo Colleoni al servizio di Francesco Sforza; questi si impossessò di Melegnano il 1º maggio, non riuscì a riprendere Monza ma conquistò Vigevano il 3 giugno dopo un lungo assedio e occupò il Seprio e la Brianza intorno a Monza. Le truppe dello Sforza misero le mani su tutti i raccolti dei dintorni di Milano, lasciando la città senza rifornimenti.
Nel luglio 1449 i ghibellini ebbero di nuovo la maggioranza nel consiglio. Furono condotte trattative in tutte le direzioni: furono sollecitati l'imperatore, il re di Francia, il papa, il re di Napoli. Il 31 agosto scoppiarono dei moti popolari a Milano, i guelfi assaltarono il palazzo dell'Assemblea e i nobili ghibellini cercarono la fuga; quelli catturati furono passati per le armi. I nuovi capitani e difensori plebei tentarono di entrare in trattativa con Venezia contro Sforza. Carlo Gonzaga non riconobbe il nuovo governo della Repubblica e si unì allo Sforza. L'8 settembre vide la fine dei consigli repubblicani e Biagio Assereto divenne podestà di Milano.
L'11 settembre 1449 Lodi si arrese allo Sforza che si avvicinò quindi alle porte di Milano. Il 24 settembre a Brescia i veneziani siglarono con la Repubblica Ambrosiana una pace, secondo la quale Milano avrebbe avuto Como, Lodi e la Brianza mentre allo Sforza sarebbero andate le città del Piemonte, di Pavia, di Piacenza, di Parma e di Cremona. Le truppe veneziane si ritirarono, ma Sforza prese tempo e mantenne le sue truppe sull'Adda per impedire ai veneziani di rifornire Milano di viveri. Quindi, il 29 settembre, Sforza mandò a Venezia suo fratello Alessandro per difendere i propri diritti, ma i veneziani accettarono solo il patto di Rivoltella dell'ottobre dell'anno prima; il 16 ottobre Sforza siglò una tregua con Milano sulla base della pace di Brescia.
Il 24 dicembre fu firmato un nuovo trattato di pace tra Venezia e la Repubblica Ambrosiana con lo scopo di isolare Francesco Sforza. Questi rispose firmando la pace con il duca di Savoia il 27 dicembre e iniziando negoziati con il re di Napoli. Le truppe veneziane tolsero l'assedio che mantenevano attorno a Milano.
Nel gennaio 1450 le truppe veneziane entrarono in Valsassina e si mantennero sull'Adda in attesa delle truppe milanesi. Sforza si trovava a Vimercate per impedire la riunificazione delle due armate.Il 21 febbraio Gaspare Vimercati, che aveva ricevuto l'ordine di unirsi ai veneziani, si mise alla testa del popolo milanese affamato, liberò i prigionieri e affrontò la milizia milanese. I capitani convocarono il Consiglio dei Novecento ma una rivolta popolare mise in fuga i capitani.
Il palazzo dell'Assemblea fu assaltato e l'ambasciatore Veneziano ucciso da Giovanni Stampa, desideroso di vendetta per il fratello ucciso dai repubblicani. Un comitato rivoluzionario, diretto da Gaspare Vimercati, trattò con lo Sforza la resa a Vimercate entro il giorno seguente. Il 26 febbraio Sforza entrò a Milano con carri di viveri ma ritornò subito nel suo accampamento a Vimercate, dopo aver affidato il governo provvisorio a Carlo Gonzaga.
Il 3 marzo il nuovo governo di Milano inviò all'accampamento dello Sforza 24 delegati (4 per porta) per siglare l'atto che avrebbe consegnato la città allo Sforza; questi fu riconosciuto duca attraverso il suo matrimonio con Bianca Maria e la successione per via di figli o figlie, legittimi o illegittimi, fu accettata. L'11 marzo l'Assemblea generale approvò la trasmissione dei poteri a Francesco Sforza, continuando a riconoscere solo gli eredi maschi legittimi.
Il 25 marzo 1450, giorno della festa dell'Annunciazione, Francesco Sforza entrò a Milano dalla porta Ticinese, rifiutando l'onore del carroccio, carro trionfale con baldacchino e drappo d'oro bianco; acclamato dal popolo, raccolse la successione dei Visconti: fu il nuovo duca di Milano.

PARCO DEL CITYLIFE

CityLife vanta uno tra i parchi più ampi di Milano, ma soprattutto è ricco di opere d’arte che lo rendono un vero museo a cielo aperto tutto...