Sono tanti i luoghi d’intesse storico e artistico dove il visitatore può perdersi fra quadri, statue e opere d’arte di valore inestimabile.
Tanti angoli e luoghi dimenticati senza particolare valore artistico, ma in grado di regalare la strana sensazione di essere tornato indietro nel tempo, dove le lancette dell’orologio hanno smesso di girare e sotto la patina di oblio che li ammanta, è possibile coglierne tracce.
L'antico mestiere dello spazzacamino era nata dall'esigenza di pulire le canne fumarie dalla fuligine. Lo spazzacamino di solito era un ragazzotto minuto per entrare negli angusti camini ed aveva sempre il viso nero dalla fuligine. Questo antico mestiere non è scomparso ma sono totalmente cambiate le modalità di lavoro.
Canzone popolare milanese sul mestiere dello spazzacamino:
Su e giù per le contrade Di qua e di là si sente ‘na voce allegramente ‘riva el spazzacamin !
S’affaccia a la finestra La bella signorina Con voce graziosina Ciama el spazzacamin
Prima lo fa entrare E poi lo fa sedere Gli dà mangiare e bere Per poi spazzà el camin
E dopo aver mangiato Mangiato e ben bevuto Gli fa vedere il buco Il buco del camin
E quel che mi rincresce O caro giovinetto Che il mio camin l’è stretto Com’ el farà a passar ?
Non dubitar signora Son vecchio del mestiere So fare il mio dovere Su e giù per il camin
E dopo quattro mesi La luna va crescendo La gente va dicendo L’è lo spazzacamin
E dopo nove mesi È nato un bel bambino Che somigliava tutto A lo spazzacamin.
Donne donne gh'è chí el magnano che'l gh'ha voeuja de lavorà e se gh'aví quajcoss de fà giustà tosann gh'è chí el magnan che'l gh'ha voeuja de lavorà.
Salta foeura ona sposotta cont in man 'na pignatta rotta: E se me la giustii propi de galantòmm mí sí ve la daría de nascost del mè omm.
El marito apos a l'uscio el gh'aveva sentito tutto el salta foeura cont on tarèll in man e pirn e pum e parn su la crapa del magnan.
El magnano el dis nagotta e 'l va via con la crapa rotta senza ciamà dottór nè avocatt el s'è stagnàa la crapa al post di sò pignatt senza ciamà dottór nè avocatt el s'è stagnàa la crapa al post di sò pignatt.
Barbapedana era il soprannome del più caro e noto cantastorie Enrico Molaschi; bizzarro personaggio della vita popolare milanese (fine ottocento). In seguito Barbapedana divenne il soprannome dato a tutti suonatori e cantanti ambulanti, che con la loro arte d’improvvisare riuscivano a divertire gli ascoltatori.
A Milano si aggirava El SciurDondina , capo della Squadra Mobile nella seconda metà dell’Ottocento.
Personaggio realmente esistito, con gesta e modi riportati da molti suoi contemporanei, seppur con date e luoghi spesso discordanti. Sposato con una francese o forse con un'italiana di nome Angiola Lesti. Residente in Via S. Maria Fulcorina o in Via Borromei. Sempre solo negli ambienti malfamati o accompagnato da un assistente. deceduto per alcuni nel 1838 o, come riporta un vecchio articolo del Corriere della Sera , il 21 agosto del 1899: Ieri, dopo pochi giorni di degenza, è morto di emorragia cerebrale, all'Ospedale Maggiore, Luigi Massa , il famoso Dondina, l’ex brigadiere di Questura che fu per circa un ventennio lo spauracchio dei malviventi di Milano. Col caratteristico nomignolo i loschi frequentatori dell’antico Tivoli vollero schernirlo per un'imperfezione ai piedi, che costringeva il loro persecutore a procedere dondolante.
non c’è dato di sapere se il suo incedere claudicante fosse causato da un difetto congenito o alla sua condizione di perenne sbronzo. Dobbiamo tener presente che l’analfabetismo generale di quel periodo, le dicerie e le canzoni popolari scalzavano quasi sempre la realtà dei fatti.
El Sciur Dondina . Analfabeta, brevilineo, dotato di una forza erculea, (lede , (le sue dita sembravano tentacoli di ferro, il suo pugnoun maglio -Paolo Valera), violento ma generoso, rispettato dalla gente e temuto dai criminali. Non essendoci all'epoca indagini scientifiche accurate, El Dondina si affidava unicamente al proprio fiuto e a un’ampia rete di informatori per scovare i malandrini. Cresciuto tra scassinatori e tagliagole, conosceva perfettamente la mentalità criminale che gli permetteva di essere sempre un passo avanti agli altri investigatori. Se da una pare preferiva riempire di ceffoni i minorenni che campavano di furtarelli per evitar loro il carcere ( scappa che el riva El Dondina - gergo rimasto in uso per anni allo scopo di rimettere in riga i ragazzini), dall'altra non disdegnava di riempire di botte i criminali recidivi ma, anche se su questo punto, pare vi fossero parecchie e esagerate dicerie. Un fatto da menzionare è senz'altro quello dei teppisti di San Giovanni Sul Muro che per mesi terrorizzarono il quartiere: picchiavano gli osti per non pagare il conto, malmenavano la gente di passaggio e abusavano delle ragazze. Il Dondina e la sua squadra fecero piazza pulita nel giro di poco con metodi non sempre ortodossi, riportando l’ordine e la tranquillità. Ma, come s’è accennato in precedenza, quest’uomo di altri tempi che operava nel sottobosco criminale di una Milano degradata dove la legge non esisteva, si dimostrò magnanimo con molte persone, offrendo spesso loro una possibilità di riscatto. Quando i vertici della polizia cambiarono e Milano stava per affacciarsi al futuro, El Dondina divenne anacronistico e superato. Un analfabeta che godeva di una totale indipendenza nelle indagini e che si comportava come i criminali che arrestava non poteva più essere tollerato. Nella sua vita aveva risolto innumerevoli casi, scovato molti assassini, truffatori e ladri. Ma tutto questo apparteneva ormai al passato. Ritiratosi dall’attività o forse costretto prematuramente alla pensione El Sciur Dondina finì i suoi giorni in ristrettezze economiche. Ma nonostante dell’uomo si sia persa memoria la sua leggenda vive tutt’oggi. Per coloro che fossero interessati consiglio i gialli della bravissima Albertina Fancetti che hanno per protagonista El Dondina. Profonda conoscitrice della storia meneghina dell’Ottocento e ottima guida della nostra città, i suoi libri vi catapulteranno nella Milano di allora, facendovi assaporare le esperienze che visse il leggendario poliziotto.
El Dondina quand l’è ciocch el va intorna a ciappà i locch e i e mèna a San Vittor a sentí quant inn i or E sònna la voeuna sònna i dò el Dondina l’è sú ancamò sònna i tríi sònna i quatter el Dondina l’è a teater E sònna i cinq e sònna i ses el Dondina l’è adrée a bev sònna i sètt sònna i vòtt el Dondina l’è al casòtt .
Durante l'occupazone austriaca successiva al fallimento della Prima Guerra d'Indipendenza, l'insofferenza verso gli stranieri crebbe a dismisura a Milano.
Luogo dove nobili e borghesi potevano manifestare il loro stato d'animo erano i teatri.
La prima avvisaglia di insofferenza si ebbe alla Scala (che in realtà si chiama Teatro alla Scala), quando la ballerina austriaca Fanny Elssler, famosissima e, pare, bellissima, nel febbraio del 1848 incassò una all’apparenza ingiustificata, ma durissima contestazione, ripetuta nelle serate seguenti al punto che la poveretta ruppe il contratto e tornò con il morale malconcio a Vienna. Il pretesto era stato banale e insieme significativo: le allieve della scuola di ballo avevano deciso di entrare in scena portando la medaglietta di Pio IX, allora improvvidamente considerato alfiere dell’unità d’Italia, proprio lui che avrebbe fatto di tutto per impedirla, e la Essler, convinta e fedelissima suddita, si era opposta al punto da minacciare il proprio ritiro dallo spettacolo. La cosa, arrivata al pubblico, aveva provocato la gazzarra.
Di lì a pochi giorni accadde il resto, e fra il 18 e il 22 marzo sulle strade di Milano trovarono la morte un migliaio fra patrioti e militari austriaci, per il prologo di quella che sarebbe stata la I Guerra di Indipendenza. Ma si trattò di una guerra che il Piemonte perse, e l’euforia dei milanesi durò il poco che doveva durare.
Gli austriaci tornarono con il dente avvelenato, la repressione che ne seguì fu dura, e Svizzera e Piemonte si riempirono di fuorusciti. Da allora la Scala, con la platea al solito affollata dalle giacche bianche degli ufficiali occupanti, venne provocatoriamente disertata in favore del Carcano, ed è su quel palcoscenico a pochi passi dalle nebbie degli orti fuori porta che debuttò una canzone destinata a entrare nel cuore della cultura popolare della città, cioè “La bella Gigogin”. La sera del 31 dicembre 1858 la banda civica diretta dal maestro Gustavo Rossari, accompagnata dal coro, la eseguì in prima assoluta, e dovette replicarla la bellezza di otto volte.
Poi, alle quattro del mattino, uscendo per il programmato omaggio al viceré austriaco, altro non fece che suonarla per l’intero percorso, con quel “daghela avanti un passo” che elettrizzò i milanesi scesi in strada per fare ala all’evento. Il viceré se la trovò così cantata sotto casa, e pare non si sia reso conto di cosa nascondesse quel testo all’apparenza sconclusionato e innocente.
Il tema principale del canto era l'invito a Vittorio Emanuele II a fare avanti un passo, inteso a "fare l'Italia", diventò quasi subito una canzone patriottica.
Alludeva anche al fatto che le truppe italiane dovevano scacciare via quelle austriache e viene usato il termine polenta perché la bandiera austriaca è gialla come la polenta. Venne scritta in dialetto perché gli austriaci non ne capissero il significato.Gigogin è il diminutivo dialettale piemontese di Teresa, ma la leggenda narra che la Gigogin fosse una splendida ragazza milanese che durante le Cinque Giornate di Milano, da una delle barricate di Porta Tosa sgusciò tremante per il freddo. Si seppe che era fuggita dal collegio e che aveva deciso di battersi con i patrioti.
Luciano Manara la incaricò di portare un messaggio urgente allo stato maggiore dell’esercito sardo (a La Marmora, colonnello dei Bersaglieri). Eseguì l’ordine. Ritornata a Milano, fece la vivandiera degli insorti, e conobbe Goffredo Mameli.
Tra i due nacque, sembra, un grande amore, ma la Gigogin dovette seguire i volontari di Manara al fronte.
A Goito fu in prima linea, a soccorrere e a dar da mangiare ai soldati di Carlo Alberto. L’esercito sardo venne sconfitto, la Gigogin riprese la strada di casa, destinata nuovamente al collegio.
La leggenda continua con il suo fantasma che avrebbe assunto sembianze umane, guarda caso quelle di una vivandiera, nelle battaglie della guerra del ’59: a Magenta e a San Martino.
Al termine dei combattimenti sarebbe scomparsa.
Della Gigogin non si sa nulla, nemmeno se sia realmente esistita, e quasi certamente era una allegoria della Lombardia stessa, essendo Teresina il nome che la carboneria aveva dato alla regione durante i moti ottocenteschi e Gigogin, come detto ne è un vezzeggiativo. Questa figura di bella giovane coraggiosa che aiutava i soldati in battaglia doveva sollevare il morale delle truppe lombardo piemontesi; certo è che la sua canzone musicata da Paolo Giorza nel 1858 divenne immensamente popolare dopo il capodanno al Carcano.
Già l'anno successivo le truppe sabaude, rinforzate da migliaia di fuoriusciti lombardi che avevano portato con loro la storia e la canzone della Gigogin, insieme agli Zuavi di Napoleone III°, combatteranno a Magenta contro gli Imperiali Austriaci intonando proprio La Bella Gigogin.
Divenne subito l'inno ufficiale dei Bersaglieri e dei Cacciatori delle Alpi. La sua diffusione fu talmente grande che gli stessi austriaci nei primi mesi non ne capirono il doppio senso indipendentista, tanto che il 24 giugno 1859, a Solferino nella battaglia decisiva per l'Indipendenza dell'Italia pure la loro banda sul campo di battaglia suonò La Bella Gigogin nello stesso momento in cui francesi ed lombardo-piemontesi la intonavano sul fronte opposto!
A Solferino venne combattuta la più grande battaglia della storia e tale fu sino alla Grande Guerra. Si fronteggiarono oltre 230.000 soldati e vi furono oltre 30.000 morti e altrettanti feriti. Da questa carneficina "naque" la Croce Rossa.
Quando pochi mesi dopo da Quarto salparono i Mille di Garibaldi, a bordo delle navi si intonava solo una canzone, ovviamente La Bella Gigogin.
Subito dopo l'Unitò d'Italia La Bella Gigogin venne proposta come inno nazionale, salvo poi vedersi preferire una canzone di quel Mamali, che la leggenda narra essere stato l'ultimo grande amore della Gigogin.
Per anni e anni, ad ogni apparizione pubblica di Giuseppe Garibaldi, veniva immediatamente intonata La Bella Gigogin.
In un passo de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (nonché nell'omonima trasposizione cinematografica di Luchino Visconti) alcuni giovani cantano strofe de La bella Gigogin "trasformate in nenie arabe, sorte cui deve assuefarsi qualsiasi melodietta vivace che voglia essere cantata in Sicilia".
Da decenni è anche la sigla ufficiale (solo melodia) del Gazzettino Padano, giornale radio della Lombardia trasmesso dalle stazioni di Radio Rai.
Quanto a colui che ha musicato La Bella Gigogin, Paolo Giorza, si ricorda che nacque a Milano l'11 novembre 1832 ed Era figlio di Luigi, pittore e cantante baritono drammatico. Fu proprio il padre ad iniziarlo alla musica.Nel corso della sua vita, produsse e scrisse oltre 40 spartiti tra cui vari valzer; viaggiò in buona parte del mondo lavorando a Venezia, Vienna, Londra e Parigi prima di approdare in America ed in Australia. Nel 1858 scrisse la celebre "La bella Gigogin" diventata successivamente una canzone tanto famosa quanto amata, durante la Seconda guerra di indipendenza.
È del 10 marzo 1860 invece, la rappresentazione della sua prima opera lirica, dal titolo "Console di Milano" che riprendeva un episodio reale di storia lombarda. Su invito di Garibaldi, scrisse nel 1866 "Inno alla guerra", paroliere Plantulli. Altre opere che si ricordano: "La capanna dello zio Tom" (metà 1860) e nel 1867 si spostò nelle Americhe collaborando con vari teatri e cantanti.
Nel 1871 arrivò in Australia dove ebbe successo sia come compositore che come maestro tanto da essere annoverato, insieme ad Isaac Nathan, il più significativo musicista che lavorò in Australia nel XIX secolo.
Dire Ortica, a Milano, significa pensare a Enzo Jannaci. E a quella malin-comica storia del poveraccio che, come diceva la canzone (pubblicata per la prima volta nell'album «Sei minuti all'alba», nel 1966, ndr), «faceva il palo, ma l'era sguercio, non ci vedeva quasi più».
Storia di vecchia mala, di Milano scomparsa, di case di ringhiera e di dialetto che sa dire tutto, anche quello che vien taciuto. In quel periodo che va dalla fine della guerra agli anni '50, con i palazzi vecchi e nuovi a contendersi gli spazi e la «ligera», la microcriminalità «leggera», a infilarvisi. Un mondo che, una volta scomparso, è rivissuto nelle sette note, e nelle voci di Jannacci, Giorgio Gaber, Ornella Vanoni, Nanni Svampa e i Gufi.
«Papà diceva che quella Milano l'aveva fregata la velocità, le macchine soprattutto», spiega Paolo Jannacci, memoria in pensieri e note di papà Enzo, musicista jazz oggi impegnato in un progetto in studio ma anche nelle tappe del live In concerto con Enzo .
«Uno spettacolo - dice - che parte concerto e finisce salotto, dove affronto le canzoni di papà e ne racconto l'anima. All'inizio ero un po' timoroso all'idea, poi ho constatato che il pubblico apprezza, e gli amici mi hanno sostenuto: tanta gente ha ancora voglia di sentire le canzoni di mio padre». Della famosa canzone scritta da Jannacci con Walter Valdi, Paolo ricorda: «Era una di quelle piccole storie molto simili a quelle che papà amava raccontare a casa nostra sugli anni della Milano della guerra, quella delle sirene e dei bombardamenti. Lui sebbene fosse stato abbastanza fortunato, ricordava la povertà, e una certa criminalità che nasceva dalla fame: era sempre un attività contro la legge ma nasceva da presupposti diversi da quelli dell'avidità.
Le storie di periferia lo coinvolgevano, le captava dai vicini di casa, dalle strade in zona Forlanini, via Sismondi e Città Studi, quella parte di Milano alla quale era sempre rimasto legato».
E quel quartiere un po' paese a sé, l'Ortica, non poteva che essere un microcosmo perfetto per la sua immaginazione: «Valdi aveva scritto il testo di Faceva il palo in dialetto stretto spiega ancora Paolo Enzo riteneva che tradurla in italiano avrebbe portato lo spirito della milanesità a tutti, anche al sud. Papà voleva essere capito da tutti, poi magari era un tipo che non amava troppo le interviste. La storia del palo dell'Ortica aveva quell'ironia e sottile malinconia che erano sue ».
Un brano dello Jannacci degli inizi, ancora in milanese, scritto con Walter Valdi. Quasi una storia da cabaret, quella dello squattrinato entrato nella banda dell'Ortica, lo stesso quartiere milanese della via Gluck di Adriano Celentano, per fare il "palo": il problema è che non vede nulla e la banda viene presa dalla polizia durante una rapina. Lui rimane lì, come se niente fosse, a scrutare nella notte, convinto di essere stato truffato dai compari. La conclusione? Lui si convince che deve lasciare la banda e mettersi in proprio.
Al civico 50 di via Giambellino, un tempo estrema periferia ovest di Milano e oggi, grazie anche alla vicinanza con le nuove zone della movida, via Savona e via Tortona, area destinata ad essere rapidamente riqualificata, c’è ancora il bar Gino (dai locali detto anche “delle due palle”, a causa delle grosse lampade sferiche che ne illuminano l’ingresso), era il bar Gino con il suo bancone in radica di noce e ottone prodotto dalla Zanchi e Angeloni con il suo bigliardo che ora non cè più. Che si ricollega al mitico personaggio di fantasia che Giorgio Gaber ha reso immortale con la sua celebre ballata del Cerutti Gino, composta nel 1964.
Il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago vent’anni biondo mai una lira per non passare guai fiutava intorno che aria tira e non sgobbava mai il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago una sera in una strada scura occhio c’e’ una lambretta fingendo di non aver paura il Cerutti monta in fretta ma che rogna nera quella sera qualcuno vede e chiama veloce arriva la pantera e lo vede la madama il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago ora è triste e un poco manomesso si trova al terzo raggio e’ lì che attende il suo processo forse vien fuori a Maggio s’e’ beccato un bel tre mesi il Gino ma il giudice è stato buono gli ha fatto un lungo verborino è uscito col condono il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago è tornato al bar Cerutti Gino e gli amici nel futuro quando parleran del Gino diran che è un tipo duro
Tutti i paesi dell'alto Milanese, compresa l'Isola Garibaldi, coltivavano infatti una sincera vocazione per la musica. Più celebre della banda di Dergani è però rimasta quella del capoluogo, Affori, il paese successivo, situato tra la vecchia e la nuova Comasina. In realtà la sola Affori, senza contare Dergano e Bruzzano, nei suoi tempi migliori potè contare addirittura cinque bande musicali, nessuna delle quali sovvenzionate dal comune.
In testa era il corpo Musicale Donizetti, nato come società Filarmonica nel 1853, e talmente conosciuto che nel 1907, centenario della nascita di Garibaldi, considerato allora un nume della nazione, tenne due concerti all'Arena.
Uniforme blu, simile a quella dei carabinieri, buona volontà e tanto spirito cooperativo. Si studiava a lume di candela nelle stalle di villa Litta, e in caso di difficoltà ci si aiutava sempre. La mattina presto, per Santa Cecilia e per Natale, si girava per i cortili suonando la musica del cercott, da accostare al detto te se on cercott (uno scroccone).
A questo seguiva, in ordine di importanza, la banda LIBERTA', la più rossa, decimata sotto il fascismo (eren poveritt: niente divisa, ma cappello con visiera e abito della festa); quindi quella di PAOLOTT, parrocchiali, scomparsa verso il 1940 per mancanza di fondi, perchè i pret gh'han i scocc faa a lumaga: van denter, ma vegnen no foeura. Breve vita poi la banda del PANZERI, una specie di fanfara, che si riuniva nella trattoria del PANZERI (angolo Zanoli-Cialdini). Ultima, la banda del FRECASS o del cuu rugin: un folto gruppo di giovani della piccola Stalingrado di Affori- I caseggiati rossi di via Cialdini, che mascherati, suonavano con i coperchi e altri mezzi di fortuna della trattoria LONGHI. Ma la grande guerra li decimerà. Per la musica gli Afforesi davano tutto: pagavano di tasca propria strumenti e riparazioni , e rinunciavano alle.. baruffe.
Famosa era la canzone IL TAMBURO DELLA BANDA D'AFFORI che fu composta da Panzeri e Restelli e nacque ai giardini pubblici....l'è il tamburo principal de la banda d'affori , che comanda 550 pifferi...e i ochett che fan qua qua...
.Già i 550 pifferi erano i gerarchi fascisti e il tamburo ch'el par o n gall potrebbe essere Benito Mussolini.
Ma il successo arrivò solo dopo la guerra....
Il tamburo della Banda D'Affori di Canzoni Milanesi
(Di Rastelli – Panzeri – Ravasini)
Caterina, Caterina
'Riva la banda, 'riva la banda 'Riva la banda del nòst paes Del nòst paes, del nòst paes Oh Caterina mettel su 'l tò vestii de spos Oh Caterina mettel su 'l tò vestii de spos
Gh'è 'l capobanda, gh'è 'l capobanda Gh'è 'l capobanda ch'el g'ha i barbis Che bej barbis, che bej barbis Oh Caterina el capobanda l'è 'l tò Luis Oh Caterina el capobanda l'è 'l tò Luis
Vardee tosann che bej bagaj Ma vardee tosann che bej sonaj E col tambur inscim' ai spall Vardee 'l Luis se 'l par on gall
L'è lù, l'è lù, sì sì, l'è pròpi lù! L'è 'l tamburo principal della Banda d'Affori Ch'el comanda cinquecentocinquanta pifferi Oh tosann ma batt i man ch'el tambur l'è scià Che risott! Gh'è anca i òcch che ghe fan "qua qua"
A vedell gh'è i tosanell che diventan timide Lù confond el Riguleto con la Semiramide "Bella figlia dell'amor Schiavo son, schiavo son dei vezzi tuoi"
Passa la banda, passa la banda Passa la banda, la va a Cantù La va a Cantú, la va a Cantú Oh Caterina el tò Luis el va innanz pù Oh Caterina el tò Luis el va innanz pù
Forza Luigi, forza Luigi Forza Luigi ch'è scià 'l tranvai Ch'è scià 'l tranvai, ch'è scià 'l tranvai Oh Caterina lù 'l gh'ha on pè dent in di rotaj Oli Caterina lù 'l gh'ha on pè dent in di rotaj
Fermate il trarn, spostate il tram! Vegnen giò tucc. Oh che can can! E lù l'è là compagn d'on scior Ch'el ghe da dent al sò tambur
L'è lù, l'è lù, sì sì, l'è pròpi lù! L'è 'l tamburo principal della Banda d'Affori Ch'el comanda cinquecentocinquanta pifferi Oh tosann ma batt i man ch'el tambur l'è scià Che risott! Gh'è anca i òcch che ghe fan "qua qua"
Dire Ortica, a Milano, significa pensare a Enzo Jannaci. E a quella malin-comica storia del poveraccio che, come diceva la canzone (pubblicata per la prima volta nell'album «Sei minuti all'alba», nel 1966, ndr), «faceva il palo, ma l'era sguercio, non ci vedeva quasi più».
Storia di vecchia mala, di Milano scomparsa, di case di ringhiera e di dialetto che sa dire tutto, anche quello che vien taciuto. In quel periodo che va dalla fine della guerra agli anni '50, con i palazzi vecchi e nuovi a contendersi gli spazi e la «ligera», la microcriminalità «leggera», a infilarvisi. Un mondo che, una volta scomparso, è rivissuto nelle sette note, e nelle voci di Jannacci, Giorgio Gaber, Ornella Vanoni, Nanni Svampa e i Gufi.
Faceva il palo nella banda dell'Ortiga Ma l'era sguercio, non ci vedeva quasi più Ed è stato così che li han presi senza fatica Li han presi tutti... tutti, tutti, tutti, fuori che lui
Lui era fisso che scrutava nella notte Quando gli passato davanti a lui un carabinier Insomma on ghisa, trii carriba e on metronotte Gnanca una piega lù l'ha fà, gnanca un plissé
Faceva il palo della banda dell'Ortiga Faceva il palo perché l'era el sò mestee
Così precisi come quelli della Mascherpa Sono restati lì i suoi amici, a vedere i carabinier Han detto: Ma come, porco Giuda, mondo cane: Il nostro palo, brutta bestia, ma dov'è?
Lui era fisso che scrutava nella notte Ha visto nulla, ma in compens l'ha sentii nient Perché a vederci non vedeva un'autobotte Però a sentirci ghe sentiva on accident
Faceva il palo della banda dell'Ortiga Faceva il palo perché l'era el sò mestee
Ci sono stati pugni, spari, grida e botte J'hann menaa via che l'era giamò quasi mezzdì Lui sempre fisso, lì, a scrutare nella notte Perché el ghe vedeva istess de nòtt come 'n del dì
Ed è li ancora come un palo nella via La gente guarda, gli dà cento lire e poi, poi va Lui, circospetto, guarda in giro e mette via Ma poi borbotta, perché ormai l'è un po' arrabbià
Ed è arrabbiato con la banda dell'Ortiga Perché lui dice: Non si fa così a rubar
Dice: Ma come, a me mi lascian qui di fuori E loro, loro chissà quand'è che vengon su E poi il bottino me lo portano su a cento lire Un po' per volta, ma a far così non finiamo più
Nò, nò, quest chì è pròppi on lavorà de stupid Io sono un palo, non un bamba, non ci sto più Io vengo via da questa banda di pistola Mi metto in proprio, così non ci penso più
Faceva il palo della banda dell'Ortiga Faceva il palo perché l'era el sò mestee
Sapete che “O mia bela Madunina” è nata per fare uno scherzo ai napoletani? L’inno alla Vergine che svetta sul Duomo di Milano è un’invenzione di Giovanni D’Anzi. Che ebbe ispirazione in un night… a Madunina sbocciò quasi per ripicca ai motivi napoletani (e romani) che nel 1935 spadroneggiavano a Milano. Infatti nei teatri milanesi si tenevano spesso dei veri spettacoli imperniati sulle canzoni: erano delle Piedigrotte napoletane e anche romane. Una sera al maestro Giovanni D’Anzi, mentre ascoltava i cantanti che snocciolavano motivi napoletani, venne l’idea di fare una canzone in pretto milanese. Rincasato che era ormai l’una di notte si sedette al pianoforte e compose la celebre canzone, una delle poche non scritte insieme all’amico Alfredo Bracchi. In “O Mia bela Madonina” (edizioni Curci), Giancarla Moscatelli racconta come nacque lo “scherzo” di D’Anzi. Siamo nel 1935. Passa gran parte dell’estate e il maestro non ha ancora trovato l’idea giusta come alternativa alla “Piedigrotta“, la carrellata di canzoni napoletana che chiudeva gli spettacoli del Trianon. Fino a una sera di metà agosto. «Linda Pini, una famosa star del cinema che non disdegnava di interpretare una canzone – racconta D’Anzi (nella foto) – era la vedette dello spettacolo e mia carissima amica. Tutte le sere, prima di scendere al night, davo un’occhiata allo spettacolo e pensavo: ma guarda questi qui, cantano le bellezze di Napoli e Roma, ma per fare qualche soldo devono venire a Milano!». Così D’Anzi racconta le prime idee della sua canzone più famosa. Il giorno dopo ne parla con gli amici passeggiando in Galleria, prima di salire in ufficio. C’è chi sorride ma è d’accordo, chi è perplesso perché l’ironia è troppo forte e chi, come il maestro, è convinto che sia la strada giusta. Passano due mesi. E’ a ottobre la canzone inizia a prendere forma, è la prima volta che D’Anzi scrive le parole. Bacchi, amico e paroliere non se la prende: è ansioso di vedere il risultato di questo “scherzo”. «E’ una sera, per divertirmi, dico alla Linda Pini: senti, se domani ti porto una canzone in cui si prende un po’ in giro Napoli e Roma, tu me la canti? Così, sai, per vedere le loro facce…! E la Pini che era mezza matta come me, accettò. Quella notte, in tre ore, per fare uno scherzo ai napoletani feci tutto. Portai parole e musica alla Linda e lei, due sere dopo, alla fine dello spettacolo, annunciò una novità, la mia canzone “Madonina”». D’Anzi, nella penombra della sala, ascolta più incuriosito che timoroso. Al termine del pezzo, parte qualche timido applauso, per lo più apprezzamento all’indirizzo della Pina. Poi il battimani sale sempre più forte. Il maestro è contento: ha capito che lo spirito della canzone è stato compreso e il pezzo li ha conquistati, quasi fosse un ponte tra nord e sud d’Italia. Come per quasi tutti i brani che ha composto, non ci ha pensato troppo su. Chi era con lui dice che ci ha messo poco più di un quarto d’ora. Non c’è da stupirsi: le canzoni di D’Anzi nascono dal quotidiano, dai sentimenti genuini, basta far andare d’accordo musica e parole.
A disen la cansun la nass a Napuli e certament g’han minga tutt i tort Surriento, Margellina tutt i popoli I’avran cantà almen un miliun de volt mi speri che s’offendera nissun se parlom un cicinin anca de num.
O mia bela Madunina che te brillet de lontan tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan sota a ti se viv la vita se sta mai cui man in man canten tucc "lontan de Napuli se mor" ma po’ vegnen chi a Milan.
Adess ghè la cansun de Roma magica de Nina er Cupolone e Rugantin se sbaten in del Tever, roba tragica esageren, me par, un cicinin Sperem che vegna minga la mania de metes a cantà "Melano mia".
O mia bela Madunina che te brillet de lontan tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan sota a ti se viv la vita se sta mai cui man in man canten tucc "lontan de Napuli se mor" ma po’ vegnen chi a Milan.
Si vegnì senza paura num ve songaremm la man tutt el monda l’è paes e semm d’accord ma Milan, l’è un gran Milan!
Quest ca sunt dré a cüntavv, l'è 'na storia vera, De vün che l'è mai stà bún de dì de no; I s'era conossü visin a la breda; Le' l'era d' ruguréd e lü... su no!
Questa che sto per raccontarvi è una storia vera di uno che non è mai stato capace di dire di no Si erano conosciuti vicino alla Breda (1) lei era di Rogoredo e lui ... non so!
Un dì lü l'avea menada a veder la fiera, La gh'eva un vestidin color del trasú; Disse: "vorrei un krapfen... non ho moneta" "pronti!" el gh'ha dà dés chili... e l'ha vista pü!
Un giorno lui l'aveva portata a veder la fiera lei aveva un vestitino color cacchetta (2) Disse "Vorrei un krapfen ... non ho moneta" "pronti" gli ha dato un diecimila ... e non l'ha vista più! (3)
Andava a rogoredo, cercava i suoi danée; Girava per rogoredo e vosava come un strascée: "no, no, no no, non mi lasciar, No, no, no no, non mi lasciar, Mai, mai, mai!"
Andava a Rogoredo, cercava i suoi soldi Girava per Rogoredo e gridava come uno straccivendolo: "o, no, no no, non mi lasciar, No, no, no no, non mi lasciar, Mai, mai, mai!"
Triste è un mattin d'aprile senza l'amore! I gh'era vegnü anca in ment d'andà a 'negass Là dove el navili l'è pussé negher, Dove i barcún i poeden no 'rivà...
Triste un mattino d'aprile senza l'amore Gli era venuto anche in mente di andare ad annegarsi Là dove i navigli sono più scuri Dove i barconi non possono arrivare
E l'era bel fermott de giamò un quart d'ura, E l'era passà anca el temp d'andà a timbrà: "...mi credi che 'massàmm, ghe poeuss pensar süra; 'dess voo a to' i mè dés chili... poi si vedrà!"
Era lì bel fermo già da un quarto d'ora Era anche passato il tempo di andare a timbrare "credo che ad ammazzarmi, potrei pensarci sopra, per ora voglio i miei diecimila, poi si vedrà"
Andava a rogoredo, cercava i suoi danée; Girava per rogoredo e vosava come un strascée: "no, no, no no, non mi lasciar, No, no, no no, non mi lasciar, Mai, mai, mai!"
Andava a Rogoredo, cercava i suoi soldi Girava per Rogoredo e gridava come uno straccivendolo: "o, no, no no, non mi lasciar, No, no, no no, non mi lasciar, Mai, mai, mai!"
“Ma mi” è una canzone scritta da Giorgio Strehler dopo la sua esperienza nella Seconda Guerra Mondiale, prima nell’esercito e poi come rifugiato in Svizzera. Il brano è scritto in milanese e racconta la prigionia di un partigiano nel carcere di San Vittore e la sua ferma resistenza. La canzone è stata cantata per la prima volta da Ornella Vanoni nel 1959.
Porta Romana bella è una canzone popolaremilanese risalente al diciannovesimo secolo, legata al mondo della microcriminalità di Milano, la cosiddetta Ligera.
La Porta Romana sorge al centro di piazza Medaglie d'Oro, allo sbocco dell'omonimo corso; è una delle sei principali porte di Milano, all'interno dei bastioni. In passato, Porta Romana identificava inoltre uno dei sei storici sestieri in cui era suddivisa la città meneghina: proprio a quest'ultimo - e non alla Porta da cui esso prende il nome – fa riferimento la canzone. Più volte viene citata via Filangieri - la quale, peraltro, non apparteneva a tale sestiere. Al numero 2 dell'omonima piazza sorge il Carcere di San Vittore, inaugurato nel 1872. I riferimenti al carcere – e alla vita, alle ansie ad esso legati – sono numerosi ed evidenti in tutta la canzone (“In via Filangieri gh'è una campana: ‘gni volta che la sona l'è ‘na cundana. […] O luna che rischiari le
quattro mura: rischiara la mia cella che'è tanto scura”).
'Porta Romana bella' è una delle più celebri canzoni popolari del repertorio milanese; tra gli altri, l'hanno eseguita artisti come Giorgio Gaber, Walter Valdi, Gabriella Ferri e Nanni Svampa. Di quest'ultimo artista ne esistono svariate registrazioni; poiché tale brano è associato agli ambienti della ‘mala’ milanese, essa compare nel terzo volume della sua antologia sulla canzone lombarda, edito nel 1970 col sottotitolo "La mala e l'osteria". Un video del 1977 riprende tre importanti artisti come Roberto Vecchioni, Francesco Guccini e Lucio Dalla eseguire ‘Porta Romana bella’ al tavolo di un'osteria. Il testo di 'Porta Romana bella', come spesso accade per le canzoni popolari, ha subito numerose varianti; quella che segue è una delle versioni più spesso eseguite.
Porta Rumana bella, porta Rumana,
ci stan le ragazzine che te la danno,
ci stan le ragazzine che te la danno:
prima la buonasera e poi la mano.
E gettami giù la giacca ed il coltello
che voglio vendicare il mio fratello,
e voglio vendicare il mio fratello,
e gettami giù la giacca ed il coltello.
La via a San Vittore l'è tuta sasi,
l'ho fatta l'altra sera a pugni e schiaffi.
L'ho fatta l'altra sera a pugni e schiaffi.
la via a San Vittore l'è tuta sasi.
La via Filangeri l'è un gran serraglio,
la bestia più feroce l'è 'l commissario.
La bestia più feroce l'è 'l commissario,
la via Filangeri l'è un gran serraglio.
In via Filangeri gh'é una campana:
'gni volta che la sona l'è 'na cundana.
'Gni volta che la sona l'è 'na cundana,
in via Filangeri gh'é una campana.
Prima faceva il ladro e poi la spia,
e adesso è delegato di Polizia.
E adesso è delegato di Polizia,
prima faceva il ladro e poi la spia.
O luna che rischiari le quattro mura:
rischiara la mia cella ch'è tanto scura,
rischiara la mia cella ch'è tetra e nera;
la gioventù più bella morì in galera.
O luna, luna, luna che fai la spia:
bacia la donna d'altri, ma non la mia.
Amore, amore, amore, amore un corno,
di giorno mangio e bevo, di notte dormo.
Ci sono tre parole in fondo al cuore:
la gioventù, la mamma ed il primo amore.
La gioventù la passa, la mamma muore
e restet cume un pirla col primo amore.
Porta Rumana bella, porta Rumana,
ci stan le ragazzine che te la danno,
ci stan le ragazzine che te la danno:
prima la buonasera e poi la mano.
Esiste una rara versione riadattata dedicata al bandito Ezio Barbieri a cui è stata aggiunta la seguente strofa:
"la banda di Barbieri era attrezzata
faceva le rapine a mano armata
sette e sette e sette fanno ventuno
arriva la volante e non c'è più nessuno"
La versione di Giorgio Gaber è completamente diversa
"Porta romana bella porta romana e' gia' passato un anno da quella sera un bacio dato in fretta sotto un portone porta romana bella porta romana in un cortile largo e fatto a sassi io fischio tu t'affacci alla ringhiera poi scendi e il pomeriggio è tutto nostro in giro per i prati fino a sera m' han detto che sei andata ad abitare in un quartiere nuovo più elegante ti sei sposata è giusto e regolare da me lo so non t'aspettavi niente passa un ciclista e canta la voce si allontana porta romana bella porta"
La povera Rosetta è una canzone popolare milaneseproveniente dagli ambienti della malavita locale (la cosiddetta "Ligera"). Della canzone esistono almeno due versioni: la prima il cui verso iniziale cita "il tredici di agosto" (cantata, tra gli altri, daNanni Svampae daI Gufi) e una seconda (cantata, fra gli altri, daMilly) che si riferisce, più correttamente, a "il ventisei di agosto", anche se Rosetta, non ancora ventenne, morì la mattina successiva, quindi il 27.
La versione del brano interpretata da Nanni Svampa è registrata nel terzo volume della sua antologia sulla canzone lombarda, edito nel 1970 col sottotitolo "La mala e l'osteria".
Nel testo viene citata la "Colonnetta", che suggerisce come forse il "posteggio" di piazza Vetra ove la ragazza "battea" fosse in passato un'osteria con quel nome; come pure può essere che, al posto della "Colonna Infame" eretta contro il poveroGian Giacomo Mora- accusato di pestifera unzione - ed abbattuta nel1778, ne venne eretta un'altra, in seguito anch'essa rimossa.
Nel corso degli anni, dapprima negli ambienti della mala, poi nelle osterie e negli ambienti popolari, de "La povera Rosetta" si sono inevitabilmente sentite diverse versioni. Questo è il testo di quella tradizionalmente ricordata.
Il tredici di agosto, in una notte scura, commisero un delitto gli agenti di questura.
Hanno ammazzato un angelo: di nome la Rosetta. Era di piazza Vetra, battea la Colonnetta.
Chi ha ucciso la Rosetta non è della Ligera: forse viene da Napoli, è della Mano Nera.
Rosetta, mia Rosetta, dal mondo sei sparita, lasciando in gran dolore tutta la malavita.
Tutta la malavita era vestita in nero: per ‘compagnar Rosetta, Rosetta al cimitero.
Le sue compagne, tutte, eran vestite in bianco: per ‘compagnar Rosetta, Rosetta al camposanto.
Si sente pianger forte in questa brutta sera: piange la piazza Vetra e piange la Ligera.
Oh, guardia calabrese: per te sarà finita; perché te l'ha giurata tutta la malavita.
Dormi, Rosetta: dormi Giù nella fredda terra; a chi t'ha pugnalato, noi gli farem la guerra;