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venerdì 4 febbraio 2022

I MILANESI A TAVOLA

Nel Medioevo il prezzo del pane era stabilito dalla meta, e variava di anno in anno secondo il raccolto del grano; la forma del pane era prescritta da rigide disposizioni, e doveva essere unica (una mica lunga con un taglio in mezzo). Anche la qualità della farina ed il grado di cottura erano determinate, e se i " controllori ", che spesso facevano ispezioni nei forni, si accorgevano di qualche differenza o sul prezzo, o sulla forma, o sulla qualità della cottura, tutta la cotta di quel giorno era sequestrata ed andava a favore del pane di San Galdino, una istituzione benefica ideata appunto da questo Santo arcivescovo milanese nel 1166 per provvedere di cibo i poveri prigionieri cui, oltre al duro carcere, s'infliggeva la tormentosa pena della fame, giacché le autorità costituite non pensavano al loro sostentamento.
In Italia ci sono senza dubbio molte città dove gli abitanti non consumano tanto pane quanto se ne divora a Milano dai soli cani, che, secondo Galvano Fiamma, raccoglitore trecentesco di una quantità di notizie storiche, se ne contavano seimilacentoquarantanove, i quali divoravano giornalmente più pane che tutti insieme i cittadini di Lodi.
Si tenga presente che i mulini non sarebbero bastati se molti, specialmente la povera gente, non avessero mangiato castagne, fave, fagioli, lenticchie in luogo del pane di frumento e del pane di segale, o consumato largamente pane composto da una mistura di segale, di miglio e di saggina. Coloro che avevano mezzi limitati, ed erano la maggioranza, assumevano dal forte consumo dei legumi secchi le proteine in sostituzione delle carni non sempre accessibili.
A proposito del sale, secondo notizie fornite dai gabellieri incaricati a riscuoterne il tributo, se ne portavano a Milano ogni anno circa 55.830 staia delle quali, circa una metà, rimaneva dentro le mura a condir le vivande dei Milanesi.
Le botteghe dove si vendeva al minuto, secondo una sua stima prudente, si aggiravano sul migliaio ed erano ricche di ogni sorta di merci.
CONSUMO DI CARNI, CACCIAGIONE, PESCE E VINO
I macellai ammontavano a più di quattrocentoquaranta; nei loro negozi e nei macelli si vendevano copiosamente carni di ogni genere di quadrupedi conforme ai gusti del tempo.
A Milano ogni giorno, secondo un accertato calcolo fatto dal nostro cronistorico, in ciascuno dei giorni in cui era consentito ai cristiani mangiar di grasso, si macellavano settanta buoi. Ogni giorno si sgozzavano maiali, pecore, arieti, agnelli, capretti o quadrupedi d'altro genere, selvatici e domestici; Bonvesin ne dirà il numero a chi gli saprà " contare il numero delle foglie e dei fili d'erba ".
" Abbondano ottime carni di bipedi silvestri e domestici, capponi, galline, oche, anatre, pavoni, colombe, fagiani, ornici (forse coturnici o gallinacei), allodole, pernici, coturni, merli " e tutto affluisce in grande quantità ad arricchire il desco dei Milanesi.
Le carni bovine, ovine, suine e la selvaggina venivano cucinate in vario modo, secondo le possibilità dei consumatori: i poveri o i parsimoniosi sfruttavano

I GNERVITT

Lessate il ginocchietto e il piedino per 2 ore in acqua leggermente salata e aromatizzata con cipolla, carota e sedano. Preparate il condimento: in una ciotola emulsionate l’olio con un pizzico di sale, uno di pepe e il prezzemolo tritato. Sgocciolate ginocchietto e piedino, lasciateli intiepidire, spolpateli, tagliate la carne a striscioline e conditela con l’emulsione preparata, la cipollina tagliata a fettine sottilissime e il prezzemolo tritato. Disponete i nervetti al centro di un piatto da portata e, se piace, contornateli con cipolline sott’aceto, peperoni rossi sott’aceto. Oppure serviteli a tavola anche in contenitori originali come le coppe da spumante.

giovedì 3 febbraio 2022

IL RISOTTO "GOBBA"

Non c'è solo il celeberrimo risotto giallo alla milanese, esiste anche il risotto giallo alla Gobba. Sicuramente meno famoso ma non meno buono.
Marcello Leonardi, l'ultimo oste della "Antica Hostaria la Gobba" , propone una inedita variante "gobbiana" al classico risotto alla milanese.
Ricetta:
Burro 
1 cipolla
salsiccia
porcini o funghi secchi
Brodo 
zafferano
Cognac
Si prepara un letto di burro, cipolla tritata fine, salsiccia e porcini tagliati a fettine sottili (in mancanza funghi secchi messi in ammollo in precedenza)
si fa rosolare il tutto, si aggiunge il riso, si fa tostare e si aggiunge una spruzzata di Cognac.
Si aggiunge un mestolo di brodo alla volta, a metà cottura si aggiunge lo zafferano.
Finito la cottura a fuoco spento si aggiunge una noce di burro per la mantecatura e qualche cucchiaiata di Grana padano.

LA BUSECCA

È generalmente preparata durante la stagione invernale. Un tempo cucinata in occasione delle festività e delle fiere paesane, la busecca era consumata tradizionalmente alla sera della Vigilia di Natale. Di origini milanesi, in seguito si è diffusa nelle zone limitrofe. Con il passare dei secoli, in ogni zona, e spesso in ogni famiglia, si è radicata una ricetta peculiare.
La busecca è una delle pietanze rappresentative della cucina milanese. Per tale motivo l'epiteto "busecconi", cioè "mangia-trippa", è diventato uno dei soprannomi con cui sono conosciuti i milanesi .
È a base di trippa, fagioli, passata di pomodoro, carote e sedano. Busecca (o Büsèca in ortografia unificata), in dialetto lombardo occidentale, significa infatti "trippa", cioè la frattaglia ricavata da diverse parti dello stomaco dei bovini e non, come generalmente creduto, dal loro intestin
INGREDIENTI
trippa lavata e precotta 1 kg (chiappa, foiolo e cuffia)
sedano 120 g
cipolle 120 g
carote 120 g
passata di pomodori 100 g
brodo vegetale 1,3 l
pancetta tesa 150 g
fagioli lessati bianchi di Spagna 400 g
Grana Padano grattugiato 100 g
burro 30 g
ginepro 3 bacche
chiodi di garofano 4
salvia 4 foglie
pepe nero macinato q.b
sale q.b.
monda carote, sedano e cipolla e tagliali in piccoli cubetti; occupati quindi della pancetta.
Taglia la pancetta tesa a listerelle o in dadini, eliminando la cotenna (che puoi inserire in cottura per dare più sapore). Metti in un tegame il burro e la pancetta, che farai leggermente soffriggere.
Unisci il trito di cipolla, carota e sedano e la salvia.
Aggiungi anche i chiodi di garofano e le bacche di ginepro schiacciate (così diffonderanno meglio il loro aroma).
Dopo dieci minuti aggiungi la trippa precedentemente lavata e tagliata a listerelle, la passata di pomodoro e il brodo vegetale caldo. Chiudi il tutto con il coperchio e lascia cuocere a fuoco bassissimo per almeno due ore.
Aggiungi i fagioli bianchi di Spagna, aggiusta di sale e pepe e lascia cuocere per un’altra mezz’ora; trascorso il tempo necessario, la trippa alla milanese è pronta per essere portata a tavola, accompagnata con del formaggio grattugiato che ogni commensale può scegliere di utilizzare a piacere.

LA MICHETTA

Michetta fa rima con “schiscetta”. E non a caso, visto che il pane simbolo di Milano (specialità a Denominazione Comunale dal 2007) è perfetto per essere riempito, e per anni ha costituito la pausa pranzo-tipo del milanese verace. Vuota, leggera e croccante, la michetta è la “briciolina” (questo il significato letterale dal dialetto) dalla forma a stella con un caratteristico cappello centrale. La storia di questa forma di pane “soffiata” risale al Settecento e al periodo della dominazione austriaca in terra lombarda.
I funzionari asburgici erano abbastanza ligi alle proprie abitudini alimentari e, nonostante avessero la fortuna di trovarsi in Italia, usavano portarsi appresso le loro pietanze preferite. Tra queste figurava il Keisersemmel, un panino consistente a forma di rosa. I milanesi, che ancora oggi non hanno perso il vizio di farsi trascinare dalla moda del momento, si affrettarono a imitare questo tipo di lavorazione nei propri panifici: tuttavia, a causa dell’umidità, il panino proprio non voleva saperne di rimanere fragrante. La soluzione? Togliere la mollica. E, con la solita nonchalance, stabilire una piccola icona.
INGREDIENTI RICETTA MICHETTA MILANESE – SOFFIATA E LEGGERISSIMA (dosi per 8 michette):
Per la biga:
400 grammi di farina 00
175 millilitri di acqua
4 grammi di lievito di birra
Per l’impasto:
40 grammi di farina 00
55 millilitri di acqua
8 grammi di sale
4 grammi di malto o zucchero
Iniziare preparando la biga. In una ciotola sciogliere il lievito di birra nell’acqua a temperatura ambiente; unire la farina ed impastare con le mani per qualche minuto. L’impasto risulterà poco omogeneo e piuttosto duro.
Coprire la biga con la pellicola e far riposare per 20 ore nel forno spento, con lo sportello chiuso (deve riposare ad una temperatura di 18-20 gradi).
Trascorso il tempo del riposo, sciogliere il malto nell’acqua a temperatura ambiente. Aggiungere la biga, il sale e la farina ed impastare fino a quando l’impasto sarà omogeneo, elastico e ben incordato.
Trasferire l’impasto sulla spianatoia, fare una palla, coprire a campana con una ciotola e far riposare per 10 minuti.
Riprendere l’impasto e stenderlo leggermente con il mattarello, dandogli una forma rettangolare. Fare un giro di pieghe quindi coprire con la pellicola ed un panno e far riposare 15 minuti. Ripetere l’operazione altre due volte.
Formare una palla di impasto, ungerla con un filo di olio; coprirla con la pellicola e con un panno, e farla riposare 20 minuti. Dividere l’impasto in 8 parti da circa 80 grammi; formare 8 palline. Infarinare le palline, coprirle con la pellicola e con una panno e far riposare 30 minuti.
Con il taglia mela o con lo strumento apposito stampare le rosette, facendo attenzione a non premere troppo.
Rivoltare le rosette ed appoggiarle capovolte su una teglia ricoperta da carta forno. Coprirle con la pellicola e con un panno, e far lievitare per 1 ora.
Accendere il forno alla massima temperatura
e posizionare sul fondo un pentolino con dell’acqua bollente. Ribaltare le rosette ed infornare per 15 minuti, quindi abbassare la temperatura a 200 gradi e proseguire la cottura per altri 5 minuti.
Sfornare e far raffreddare su una gratella.

BRUSCITT

I bruscitti (letteralmente "briciole" in dialetto bustocco; in dialetto lombardo occidentale bruscitt) sono un secondo piatto a base di carne di manzo tagliata finemente e cotta per lungo tempo
L'origine del piatto è riconducibile alla spolpatura totale delle ossa dei manzi, cioè al recupero di quelle parti che erano scartate dalle tavole dei più ricchi. Fino al boom economico, per i bruscitti si utilizzavano i tagli dell'animale più duri, che necessitavano di una più lunga cottura.
Nel 1975 a Busto Arsizio venne fondato, su iniziativa di Bruno Grampa, il Magistero dei Bruscitti, un'associazione che ha come intento quello di diffondere la conoscenza della cucina rustica bustocca. A capo dell'associazione vi è un "Maestro".
Il 16 dicembre 2012 il sindaco di Busto Arsizio Gigi Farioli ha attribuito la civica benemerenza al Magistero dei Bruscitti e ha istituito Ul dí di bruscitti (che in dialetto bustocco significa "il giorno dei bruscitti"), che cade ogni secondo giovedì di novembre.
Se si vuole mettere in tavola per “fare la festa” alla Gioeubia un buon piatto di bruscitti, bisogna diffidare delle imitazioni. Insomma niente “tarocchi” quando protagonista è la ricetta bustocca più conosciuta al mondo, da non confondere assolutamente con la carne trita da ragù. A fornire i consigli indispensabili per onorare nel migliore dei modi il piatto principe della cucina bustocca, è Gianfranco Piran, storico macellaio bustocco e confratello del Magistero dei Bruscitti, la confraternita che tutela le tradizioni locali, culturalie culinarie.
In questi giorni in vista dell’appuntamento, giovedì, con il falò della Gioeubia e con la cena di rito dopo il rogo del fantoccio, Piran nel suo negozio, dietro il banco, è una fonte preziosa per chi vuole mettersi ai fornelli e cucinare un buon piatto di bruscitti. "Non bisogna fare confusione – esordisce il macellaio – con la carne trita si fa il sugo, i bruscitti sono un’altra cosa. Si faccia attenzione". Ed ecco il distillato di saggezza in cucina servito da Piran che spiega come cucinare un ottimo piatto di bruscitti. "Si comincia dalla carne – sottolinea – deve essere di ottima qualità e di manza di almeno cinque anni, perché prende sapore nella lunga cottura che richiedono i bruscitti. Quindi occorre farsi consigliare dal macellaio di fiducia anche se ormai sono pochi anche nella mia categoria quelli che rispettano quanto indicato nella ricetta, per la maggior parte servono carne di vitellone. Ma in questo caso non otteniamo i bruscitti, e non mi stancherò di ripeterlo, ma carne al sugo".
Importanti le parti utilizzate, continua Piran: "Nel tegame ci vanno tampetto, reale, fustello e aletta, che devono essere tagliati a pezzetti della grandezza di una nocciola". Quindi tenersi lontani dalle tentazioni delle confezioni già pronte di carne macinata: non si otterrà mai un piatto di bruscitti. Acquistata la carne giusta ci si mette ai fornelli, prosegue Piran: "Nel tegame a freddo mettere lardo, pancetta, burro, bruscitti, il sacchetto dell’ “erba bona”, semi di finocchio, aglio in camicia e alloro, che va tolto a tre quarti della cottura, quindi cuocere a fuoco molto lento, per circa 3-4 ore, con il coperchio sulla pentola. Quando la carne ha consumato il suo sugo aggiungere lentamente il vino rosso corposo, in misura di un quarto per un chilo di bruscitti, lasciando evaporare. E il piatto è pronto per essere condiviso con gli amici dopo il rogo della Gioeubia". Dunque pochi ma preziosi consigli: a Busto i bruscitti non devono essere “carne trita al sugo”. Parola del macellaio Gianfranco Piran.

LA RUSUMADA

era un'antica bevanda tonica e dissetante. Indispensabile strumento allora era la "machineta de la rusumada" uno speciale frullino usato esclusivamente per montare il "rusumm" o "russ d'oeuf"
LA RÜSÜMADA (O ROSÜMADA) È UNA ANTICA BEVANDA/MERENDA, TONICA ED ENERGETICA. È DIFFUSA IN TUTTA LA LOMBARDIA SETTENTRIONALE, CON PICCOLE VARIANTI DI PREPARAZIONE E DI DIZIONE DIALETTALE. LA RADICE DIALETTALE DEL NOME RIMANDA AL TUORLO (ROSSO) DELL’UOVO: RÜSS D’OOF O RÜSÜMM.
Questa merenda povera, genuina e molto sostanziosa, è perfetta per essere gustata con della piccola pasticceria secca o con dolci a base di farina gialla.
Ingredienti
per una tazza o un bicchiere:
1 uovo freschissimo
1 cucchiaio colmo di zucchero semolato
1 bicchiere scarso di vino rosso
Preparazione:
Separate il tuorlo dall’albume dell’uovo e metteteli in
due tazze separate, montando l’albume a neve ben ferma. Al tuorlo unite lo zucchero, e, con una piccola frusta, sbattete ben bene in modo da renderlo gonfio e spumoso. Unite il tuorlo all’albume, mescolando delicatamente per non smontare il composto e, pian piano aggiungete anche il vino rosso, poco alla volta, sempre amalgamando
con la fusta. Servite subito!

sabato 15 gennaio 2022

CARSENZA

E' un dolce tipico della zona di Milano, negli ingredienti ricorda in parte il panettone e in parte i dolci tipici della tradizione natalizia. Nasce come gran parte dei piatti della tradizione come dolce fatto di avanzi, in tempi dove non si buttava via niente e il dessert si faceva con con quel che si trovava in dispensa. Farina, acqua, mele e uva: questi sono gli ingredienti base. Con il tempo è stato arricchito con burro e l'uva sostituita con uvetta; assieme alle mele possono comparire anche le pere.

A Milano era tradizione consumarlo a capodanno, nascondendo una moneta nell'impasto con tanta fortuna per chi l'avrebbe scovata nella propria fetta!

Come accade spesso per le ricette popolari, non ne esiste una versione ufficiale in quanto, come avviene ancor oggi, ognuno la personalizza a seconda del proprio gusto, di quel che c'è e di quel che manca. In ogni modo in rete non si trova molto, soprattutto in fatto a dosi. Io ho provato a modificare una ricetta presa dal blog chiaralemiericette.blogspot.com, sostituendo il lievito di birra con quello madre.


INGREDIENTI DELLA CARSENZA

450 gr farina 00
100 gr zucchero di canna
1,5 bicchieri d’acqua
80 gr diburro fuso
lievito madre essiccato (seguire le istruzioni sulla confezione per le quantità)

3 mele o pere, o un mix dei due
mezza confezione di uvetta
1 manciata di fichi secchi

PROCEDIMENTO

Impastare con le mani la farina, lo zucchero di canna, l’acqua e lievito e il burro sciolto.
Unire le mele tagliate a pezzettoni senza sbucciarle ma togliendo solo il torsolo, l’uvetta e i fichi tagliati a pezzettini amalgamando il tutto.
Foderare una teglia rotonda (diametro 26) con carta forno bagnata e travasare il composto.
Lasciar lievitare coperto da un canovaccio (per i tempi di lievitazione, basarsi sulle indicazioni riportate sulla confezione del lievito madre).
Infornare a 200 gradi per 45 minuti avendo cura di coprirla con della stagnola se diventa troppo colorita. Controllare la cottura e fare la prova dello stecchino.
Sfornare e quando tiepida spolverizzare con zucchero a velo facoltativo. Buona consumata oggi, ottima l'indomani!

sabato 20 novembre 2021

LA NASCITA DEL GRANA PADANO

Non tutti sanno che la nascita del grana padano è strettamente legata alla Abbazia di Chiaravalle
Nel 1000 d.C.
Tutto comincia più di un millennio fa, in un'epoca in cui tante delle scoperte che oggi caratterizzano in modo ovvio la nostra vita quotidiana non sono ancora avvenute.
Nel Medioevo, gli uomini sono ancora del tutto condizionati dal clima e dall'ambiente in cui vivono e non possono che seguire i ritmi naturali e le leggi biologiche.
Per quanto riguarda l'agricoltura e l'allevamento, questo significa sottostare alle stagioni e quindi accettare i cibi che la natura offre di mese in mese.
Le tecniche di conservazione sono ancora agli albori e limitate ad alcuni procedimenti di base (per esempio, l'essiccatura al sole o la salatura), quindi la maggior parte degli alimenti si deteriora in fretta.
Il latte, per quanto disponibile grazie al bestiame, deve essere consumato entro il giorno di mungitura e i formaggi freschi non durano molto di più.
E' il 1135 e i monaci cistercensi
dell'abbazia di Chiaravalle trovano nella bonifica delle terre della pianura del Po una grande opportunità per favorire l'espandersi dell'agricoltura e degli allevamenti e aumentare così la produzione di buon cibo. La conseguenza di questa enorme opera porta a una grande disponibilità di latte, di molto superiore al fabbisogno della comunità religiosa e della popolazione dei dintorni. È un peccato sprecare uno degli alimenti tra i più nutrienti e disponibili nella dieta medievale. Emerge così l'esigenza di trovare un modo per riuscire a conservarlo a lungo.
Probabilmente a seguito di qualche colta riflessione e un po' di esperimenti, matura l'idea di cuocere a lungo il latte, aggiungervi il caglio e in seguito sottoporlo a salatura.
Nasce così un formaggio a pasta dura, che sembra acquistare sempre più sapore via via che passa il tempo e la cui stagionatura permette di conservare inalterati i principi nutritivi della sua preziosa materia prima, il latte.
viene prodotto nelle caldaie dei monasteri che diventano così i primi veri e propri caseifici della storia. Sotto l'attenta guida dei monaci cominciano a diffondersi alcune figure professionali nuove, i casari, esperti appunto nell'arte della produzione del formaggio.
In virtù della sua lunga stagionatura i monaci chiamano questo nuovo formaggio "caseus vetus" ovvero "formaggio vecchio", per sottolineare ciò che lo distingue da altri formaggi di tradizione precedente che, in quanto freschi, vanno consumati rapidamente.
la gente delle campagne, che non ha dimestichezza con il latino, preferisce chiamarlo "grana" in virtù della sua pasta compatta punteggiata di granelli bianchi, ovvero piccoli cristalli di calcio residui del latte trasformato.
A seconda delle province in cui viene prodotto gli si accosta il termine che indica la provenienza. Tra i più citati si trovano il lodesano, considerato da molti il più antico, il milanese, il piacentino e il mantovano.
nella zona padana si consolida nel tempo e ben presto esso diventa un formaggio pregiato protagonista dei banchetti rinascimentali di principi e duchi.
Tra le testimonianze documentate, se ne trova riferimento in una missiva di Isabella d'Este, consorte di Francesco II Gonzaga e marchesa di Mantova, che invia il rinomato formaggio in regalo ai suoi familiari, signori del ducato di Ferrara. È il 1504.
alla sua lunga conservazione e alla non alterabilità delle sue caratteristiche alimentari e di gusto, il "formai de grana" diventa un importante alimento della gente di campagna, soprattutto durante le terribili carestie.
Il "grana padano" diventa così espressione di un'intera cultura sociale ed economica, trasversale alle sue classi, apprezzato sia dai ricchi e dai nobili, avvezzi ormai a una cucina piuttosto elaborata e raffinata, sia dai poveri le cui ricette quotidiane sono molto più semplici, ma tradizionali.
a pratica della trasformazione del latte in “grana” si diffonde sempre più, tanto da diventare uno dei pilastri dell’economia agricola.
a noi, l'evoluzione della cultura gastronomica e delle pratiche alimentari sollecita l'esigenza di definire con chiarezza le caratteristiche e le particolarità di molte preparazioni considerate espressione della tradizione e della storia più o meno antica.
Nasce così l'idea di trasformare quello che era il nome "generico" di un formaggio tipico, in un nome proprio, in grado di designare un formaggio unico e inimitabile.
Emerge insomma il desiderio di definire "Grana Padano" solo quel formaggio prodotto con materie prime ben specifiche, grazie a una tecnica e a una procedura ben definita, passo dopo passo, e in una zona di produzione altrettanto delineat
Da allora, il metodo produttivo del "grana" si tramanda nei secoli, fedele a un processo che non muta nel tempo e che, ancora oggi, assicura a questo formaggio unico quelle caratteristiche organolettiche e quell’aspetto che lo hanno reso celebre in tutto il mondo.

venerdì 19 novembre 2021

COSTOLETTA ALLA MILANESE

 

Pietro Verri nel suo volume “Storia di Milano” parla di un episodio legato proprio all’origine della cotoletta alla milanese. Il 17 settembre del 1134 cadeva il giorno dell’onomastico del fratello del vescovo Ambrogio, Satiro. Per l’occasione ai canonici della Basilica di Sant’Ambrogio venne offerto un banchetto a base di piatti ricchi, tra cui costolette impanate e fritte. Sembra che la tecnica della panatura abbia avuto origine proprio nel Medioevo per simulare la copertura d’oro che in alcune grandi famiglie nobili si utilizzava per ricoprire i cibi. In mancanza di oro, i poveri grattugiavano il pane e, aiutandosi con il rosso d’uovo creavano una panatura che, fritta nell’olio si dorava e ricordava il colore dell’oro. Il piatto, comunque, non si chiamava ancora “cotoletta”, bensì “lombolos cum panitio” e pare ricordasse più una scaloppina che il piatto della tradizione milanese.

Il nome “cotoletta” deriva dal dialetto milanese “cutelèta”, a sua volta mutuato dal francese côtelette, che vuol dire “costoletta”. Si tratta infatti proprio della costoletta, ma non di maiale bensì di vitello. L’unica che davvero possa essere a ragione chiamata la vera cotoletta alla milanese. È solo nel 1814 però che si ritrovano tracce di questo termine legato al piatto, nel dizionario milanese-italiano curato da Francesco Cherubini.

D’altro canto, già in Francia nel XVIII secolo esistevano le costine panate, e quando qualche cuoco d’Oltralpe le portò in Italia, venivano chiamate “cotolette della Rivoluzione Francese”. Queste ultime, in realtà, si differenziano dalla cotoletta alla milanese, in quanto venivano marinate nel burro fuso con erbe, sale, pepe e chiodi di garofano e poi passate nella farina, nelle uova battute e nel pangrattato prima di essere fritte.

Ma se la nostra amata pietanza derivasse proprio dal piatto francese? Negli ultimi tempi tra gli storici della gastronomia si sta facendo avanti questa ipotesi. Sta di fatto, comunque, che il Comune di Milano, con la delibera di Giunta datata 17 marzo 2008, ha assegnato la DE.CO. (“Denominazione Comunale”) alla “Costoletta alla milanese” e non cotoletta.

Sappiamo che anche a Vienna si mangiano ottime costolette impanate. Ma è nata prima la ricetta della cotoletta alla milanese o quella della cotoletta viennese (in austriaco Wiener Schnitzel)?

Si tratta di una questione annosa e di cui si conoscono solo alcune dicerie, peraltro poi, seppur riportate da guide di un certo livello (come quelle del Touring Club) recentemente smentite da chef internazionali e storici della cucina italiana. La leggenda vuole che il Conte Attems, aiutante del famoso generale Radetzky, ai primi dell’800 cenasse a Milano e gli venisse servita proprio una pietanza di una cotoletta impanata. Sembra che lui ne parlasse in una lettera come di uno “straordinario piatto a base di vitello impanato nell’uovo e fritto nel burro”. Da lì l’esportazione a Vienna.

La cucina austriaca conosceva però la panatura e la frittura già dal 1719. C’è da dire, comunque, che le due pietanze sono molto diverse. Se infatti la cotoletta milanese è solo ed esclusivamente di vitello cotta nel burro chiarificato, ma la si può servire sia spessa che sottile, con o senza osso, la wiener schitzel è sempre e solo sottile, viene servita sempre senza osso ed è di maiale. In più, viene fritta nello strutto. A questo punto non ci resta che scoprire qual è la vera ricetta tradizionale della cotoletta alla milanese.

Come preparare la cotoletta alla milanese secondo la ricetta originale:
Per preparare l'autentica cotoletta alla milanese, ricetta tradizionale della cucina lombarda, inziate dalla carne: è importante che non venga battuta ma vengano tolti solo eventuali ossicini laterali.
Ingredienti
Costolette di Vitello
2, alte circa 3 cm
Uova
2
Pane
200 g, grattugiato (La tradizione vuole che sia pangrattato appena tostato.
Con la mollica ricavata dal pane fresco liberato dalla crosta e spezzettato, seccato in forno e sminuzzato finemente, oggi frullato con un robot da cucina.)
Burro
300 g, chiarificato
Sale
Sbattere le uova dentro una fondina, salarle e grattugiare grossolanamente il pane secco.
Passare ciascun lato nell’uovo e infine nel pangrattato.
Premere bene la carne nella panatura avendo cura di farla aderire completamente.
Porre del burro in un tegame stretto e controllare la temperatura: quando è 169° aggiungere le costolette e farle ben dorare su entrambi i lati.
Fare scolare su carta assorbente e aggiungere poco sale: la cotoletta alla milanese, preparata secondo la ricetta originale, è pronta per essere gustata.
BURRO CHIARIFICATO
Il processo di chiarificazione del burro serve a separare la parte grassa dalla proteina del latte, attraverso l'evaporazione dell'acqua che va a dividere da un lato le proteine e dall'altro la massa lipidica
Per preparare il burro chiarificato la prima cosa fare è quella di spezzettare il burro in pezzi 1, dopodiché raccoglieteli e versateli in un tegame e fate fondere a bagnomaria 2. Mentre fonde il burro, noterete che sulla superficie affiorerà una sostanza acquosa 3 lasciate cuocere a fuoco dolce fin quando questa non sarà evaporata completamente; lasciate andare senza mescolare.
sistemate un imbuto in un recipiente e foderatelo con una garza sterile a maglie molto strette 4, versate il burro chiarificato liquido facendo moltissima attenzione affinché la caseina depositata sul fondo non riaffiori in superficie; infine sistemate il liquido nei vasetti. Il burro chiarificato diventerà solido non appena si sarà raffreddato.
CONSERVAZIONE
Chiuso ermeticamente in un barattolo di vetro, il burro chiarificato può conservarsi per diversi mesi in frigorifero.

OSSOBUCO IN GREMOLADA

 


Per l’Ossobuco si usa di preferenza il geretto di vitello posteriore che è il più tenero. Le fette ricavate, il cui spessore può variare da 3 a 4 cm., sono comprensive di osso centrale con midollo. Quest’ultimo è di fondamentale importanza e costituisce l’elemento irrinunciabile del piatto perché, sciogliendosi durante la cottura insieme al connettivo che lega la polpa, contribuisce a conferire mostosità al cibo.

La preparazione è in umido: la carne viene fatta cuocere in un intingolo ristretto, a bassa temperatura con l’aggiunta di liquidi, poco alla volta. Con questo procedimento essa può rimanere sul fuoco, anche a lungo, senza che vi sia dispersione di sapore.
A cottura quasi ultimata, la carne deve essere ulteriormente insaporita da un trito a base di prezzemolo, aglio e limone detta “gremolata“.

L’originale ricetta prevede la cottura in “bianco“, ossia senza pomodoro in quanto questo ortaggio è stato importato solo in un secondo momento in Europa. Questo ortaggio, che nel 1700 era già diffuso in molte regioni italiane (soprattutto nel sud d’Italia), è stato a lungo ignorato dalla cucina meneghina. La pianta, ritenuta al tempo da alcuni perfino velenosa, aveva una funzione esclusivamente ornamentale. Solo alla fine del secolo successivo compariranno preparazioni che includono l’uso del pomodoro.

Divenuto piatto di culto, l’Oss Buss, oltre che essere servito da solo, può essere accompagnato da polenta, purè di patate, spinaci al burro e, naturalmente, dal risotto alla milanese.

 L’Ossobuco alla Milanese ottiene la De.Co. (Denominazione Comunale)

Il Comune di Milano, con delibera della Giunta Comunale del 14-12-2007, ha concesso il riconoscimento di Denominazione Comunale (De.Co.) all’Ossobuco alla Milanese.
La De.Co. (Denominazione Comunale) sta ad indicare l’appartenenza di un prodotto, di un piatto ad un territorio.
La De.Co., non essendo un marchio, ma un riconoscimento dato dall’Amministrazione Comunale a prodotti gastronomici legati al territorio comunale ed alla sua collettività, non si pone sullo stesso piano delle denominazioni d’origine. È un primo segno di appartenenza che la popolazione di un territorio vuole far conoscere all’esterno e riconoscere nel contempo come suo.

• 1 ossobuco di vitello
• 20 g di burro
• mezza cipolla
• mezzo spicchio d'aglio
• vino bianco q.b.
• la scorza di un limone
• qualche foglia di salvia
• qualche rametto di rosmarino
• prezzemolo q.b.
• mezzo litro di brodo di carne precedentemente preparato
• farina q.b.
• sale q.b.
• pepe nero q.b.

  1. Preparate in una ciotola la farina e infarinate l’ossobuco.
  2. Prendete un tegame abbastanza largo e lasciate appassire a fiamma bassa 10 g di burro e mezza cipolla. 
  3. Aggiungete la carne e lasciatela rosolare da ambo i lati e, dopo qualche minuto, bagnatela con il vino. Quando sarà totalmente evaporato, aggiungete pepe e sale.
  4. A questo punto aggiungete un po’ di brodo di carne precedentemente preparato, chiudete con un coperchio e abbassate la fiamma. Lasciate andare per 1 ora e mezza continuando a girare e aggiungendo, all’occorrenza, altro brodo.
  5. Nel frattempo, su un tagliere e con l’aiuto di un coltello a lama affilata, preparate un trito di aglio, scorza grattugiata di un limone e prezzemolo (che si chiama gremolada). Poco prima di spegnere l’ossobuco aggiungete il trito nella pentola e lasciate andare ancora qualche minuto.
  6. Aggiungete anche il burro restante: una volta sciolto e amalgamato il tutto il nostro ossobuco sarà pronto!

ROSTIN NEGAA

 

Un piatto della cucina milanese più autentica, un tempo cucinato dalle nonne e dalle mamme del capoluogo ambrosiano.

Forse, dunque, non troverai questa ricetta sul menù di uno dei tanti ristoranti del centro storico di Milano, ma magari una trattoria potrebbe ancora prepararla… In caso contrario, però, dopo averti raccontato alcune curiosità su questo gustoso piatto, ti faremo scoprire la ricetta perfetta per cucinare in casa i rustin negàa, i nodini di vitello cotti nel burro – condimento grasso per eccellenza a Milano – e poi bagnati con il brodo!

er ottenere l’esclusiva denominazione De.Co. i rustin negàa hanno dovuto attendere il 2008, anno in cui il marchio di denominazione comunale è stato attribuito a pieno merito a questo piatto tipico della tradizione culinaria del capoluogo ambrosiano.

Eppure, quella dei rustin negàa è una ricetta antichissima: non solo, questa pietanza faceva parte della quotidiana alimentazione – nel senso che non era nulla di così ricercato – delle famiglie milanesi, anche le più umili. Si tratta, infatti, di una ricetta prettamente casereccia: già il nome del piatto – dialettale – parla da sé, tanto che il termine “rostin” indica l’arrostino e “negàa” significa “annegato”. 

Di uso comune sono anche gli ingredienti protagonisti di questo piatto: nodini di vitello e burro. Secondo la tradizione, i nodini di vitello venivano infarinati e, successivamente, rosolati con burro, pancetta e rosmarino. Il secondo passaggio, invece, era quello di disporre i nodini e il loro sughetto in una pirofila, sfumandoli con abbondante vino bianco e brodo

I tempi di cottura erano, al contrario di quanto si possa immaginare per un nodino di vitello, lunghissimi: ben due ore, come la cultura culinaria milanese vuole. Le casalinghe meneghine, inoltre, avevano abitudini precise: eseguivano un taglio di piccole dimensioni sulla pelle dei nodini, che poi legavano con dello spago e, dopo un’ora di cottura, bagnavano nuovamente la carne con ulteriore brodo per renderla ancora più tenera.

In tempi più recenti la pirofila viene messa in forno, mentre, secondo la tradizione più antica, per la cottura dei rustin negàa si utilizzava lo stuin, un tegame piuttosto basso, realizzato in rame e dotato di coperchio, che veniva disposto sulla brace.

Questa particolare cottura riservata ai nodini di vitello permetteva di ottenere due risultati molto amati dalla cucina milanese: una crosta ben rosolata e la tenerezza delle carni, data dall’abbondanza di brodo e sughetto. 

Ma le regole d’oro per la preparazione dei rustin negàa non finiscono qui: infatti, l’acqua di condensazione va scolata nel recipiente ogni qual volta il tegame viene scoperto, per non disperdere i vapori della carne stessa.

  • 4 nodini di vitello, spessi circa 2-3 cm
  • 70 gr di burro
  • 50 gr di pancetta
  • 200 ml di vino bianco secco
  • 4 foglie di salvia
  • 1 rametto di rosmarino
  • farina q.b.
  • sale e pepe
  • 200 ml di brodo di manzo (o di gallina)
  • Fai una piccola incisione su ognuno dei nodini di vitello e poi legali con uno spago. Infarina i nodini mentre il burro si scioglie nel tegame e poi rosola la pancetta, tagliata a dadini. Quando il burro è morbido, versa nel tegame anche i nodini e falli cuocere da ciascun lato. 

    Trascorsi circa 10 minuti dalla cottura, aggiungi gli aromi, il sale e il pepe. A questo punto potrai sfumare con il vino bianco e proseguire la cottura per almeno un’ora bagnando la carne con il brodo. 

    I rustin negàa vanno serviti caldi: puoi accompagnarli come preferisci, con le patate, con della polenta o con del risotto allo zafferano. E per brindare, concediti il piacere di un calice di vino rosso, meglio se corposo come i vini valtellinesi!


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