mercoledì 16 febbraio 2022

IL MESTIERE DEL LAVARE

I Navigli ricoprirono un ruolo fondamentale anche per la pulizia dei milanesi e le lavandaie ne erano le artefici. 
Ancora nel secondo dopoguerra il bucato nelle campagne veniva fatto con la cenere; la biancheria veniva prima bagnata e insaponata quindi immessa entro una tinozza di legno sollevata da terra e con un buco sul fondo al di sotto della quale era posto un piccolo mastello; l'operazione di lisciviatura consisteva nel versare una certa quantità di cenere e acqua bollente sopra uno spesso panno che ricopriva la biancheria nella tinozza. La liscivia, che lentamente colava dentro il mastello, veniva recuperata per lavare capi molto sporchi o colorati; i panni una volta estratti dalla tinozza venivano portati ai lavatoi o ai corsi d'acqua per essere risciacquati. Le diverse azioni di insaponatura, sfregatura e detersione delle macchie necessitavano di un piano rigido su cui operare: asse e cavalletto, parapetto in muratura nella vasca dei lavatoi, un grosso sasso nel caso di un corso d'acqua.
Il duro lavoro del lavare rimase fino a non molti decenni fa un atto collettivo strettamente collegato al mondo femminile. Nell'800 alle singole lavandaie che si recavano di casa in casa per fare il bucato si affiancò il lavandaio il quale ritirava la biancheria a domicilio avvalendosi di un carretto piatto trainato da cavalli. Fino a quando l'acqua non fu portata direttamente nelle case la sovrattassa prevista attorno al 1930 per la sua introduzione nelle abitazioni faceva ancora affollare i lavatoi pubblici.
Fare il bucato significava trovare un luogo dove l'acqua fosse presente in abbondanza; per gli abitanti della città i luoghi deputati erano i canali e le fontane, persino quelle ornamentali (questo avveniva, nonostante i divieti delle autorità). Fin prima del '700 i lavatoi lungo i canali erano pubblici e disponibili a turni ed in uso gratuito oppure riservati a gruppi di famiglie; negli anni '30 a Milano le lavandaie si recavano ancora al naviglio.
In Gorla conosciute erano le lavanderie di Mariani Dionigi (nuova costruzione del 1913 composta da lavanderia e rustici), della Cascina Faiperina, della lavanderia del Pirovano situata al “Cantun Frecc” (via Finzi 25). 
La pulizia del corpo dei Milanesi era in origine affidata alla cosiddetta “pulizia secca”, demandata cioè al cambio della biancheria; i frequenti cambi di abito, soprattutto degli indumenti bianchi, incrementavano il lavaggio a carico delle lavandaie.
L’eleganza e la moda si associavano all’igiene personale: si lavavano perciò più gli indumenti che le persone e questa usanza era poco frequente tra chi di indumenti non ne aveva abbastanza.
“Anziché abbattere il coperto del Figini o ampliare la piazza del Duomo – raccomandava lo storico Cesare Cantù – preferirei vedere costruiti i lavatoi, dove il pezzente potesse andare, torsi di dosso l’unica camicia e gli unici calzoni, vederli risciacquati, lisciati lì per lì, e rimetterseli partendo con la spesa di un soldo”.
I molti lavatoi costruiti lungo i Navigli, fuori dalla cerchia interna, servivano la città e i nuclei rurali da dove provenivano le lavandaie al servizio delle famiglie Milanesi.
I cambi d’abito erano molto frequenti soprattutto nella stagione estiva.
L’attività della lavandaie, costrette a lavare carponi “in posizione cioè incomoda senza alcuna difesa dall’inclemenza delle stagioni”, cresceva con l’aumento della popolazione di Milano e del contado.
Tra le mani delle donne che sciacquavano, strizzavano, sbattevano e coprivano di cenere gli abiti per la cosiddetta “imbiancatura”, non passavano semplici indumenti, ma anche la credibilità dei governanti di Milano: una grande responsabilità per le lavandaie, che conoscevano tutti i metodi ( “l’olio di gomito”) per restituirle al massimo del candore.
Tra gli “ingredienti” più importanti del bucato erano utilizzati acqua corrente – quella dei canali milanesi – e un’energica sbattitura su una tavola di legno – il “brellin”. Nei casi più delicati si macerava preventivamente per 24 ore la biancheria con un misterioso impasto di escrementi di vacca e di bue e l’aggiunta di liscivia. Il sapone non esisteva e veniva sostituito di frequente da cenere e acqua bollente versate sopra un panno chiamato “ceneracciolo” disposto sopra i panni.
Nel frattempo la moda diventava sempre più ricercata e orientata verso il lusso: la vera novità della moda femminile – non visibile al pubblico – arrivava nel campo della lingerie, come attesta nel 1581 in un suo memoriale di protesta contro il lusso G.A. Trivulzio, che proponeva di limitare l’uso degli ziponi a un bustino di tela “tanto per tener suso li calzoni per chi li porta” e di proibire alle donne di portare calzoni di tanta spesa (le mutande) “ come dicesi che facciano”. 
Allora fare il bagno non era comunque un’abitudine molto diffusa. 
Tuttavia, la cultura rinnovatrice investiva anche la cura del corpo, per la quale alla pulizia secca si sostituì quella bagnata. 
Sono del Settecento immagini di donne intente a lavarsi, anche le parti intime, grazie ad un esclusivo strumento, che fa la sua comparsa in Francia, il bidet. Un segno dei tempi. 
Con la rivoluzione francese e la presa di coscienza, comune a tutti gli strati sociali, della necessità dell’igiene per combattere microbi e mortalità, l’acqua per lavarsi diventava indispensabile insieme al sapone, una tappa fondamentale sulla via della costruzione dei bagni e dei lavatoi pubblici, che avverrà a Milano più tardi, agli inizi del Novecento.
Dentro la città di Milano erano presenti 19 lavatoi: 11 sono sul Naviglio Grande; 3 sono sul Naviglio della Martesana; 5 sono sul Naviglio di Pavia. I materiali utilizzati per la costruzione dei lavatoi sono la pietra, il legno e il cemento.

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