Oggi il tema della povertà è particolarmente sentito in Italia. Nei secoli dell’Età Moderna (XVI-XVII-XVIII e XIX secolo), la situazione era per molti versi simile se non addirittura peggiore: gran parte delle persone viveva in condizioni di estrema indigenza. L’ambiente familiare era fragile. Nulla di simile al tipo di famiglia europeo del Novecento, basato sulla permanenza dei piccoli nella casa dei genitori e fondato sulla sfera sentimentale degli affetti che lega i membri del nucleo familiare. Nell’antico regime e ancora nell’Ottocento la situazione era diversa. Si pensi all’istituto del baliatico: l’usanza di fare allattare i figli da una balia retribuita era diffusa tanto presso la nobiltà quanto presso le famiglie della borghesia e dei contadini.
D’altra parte, i figli di una famiglia povera lasciavano la casa paterna per lavorare nelle botteghe degli artigiani già all’età di 6 o 7 anni. Il quadro non cambiava nelle cerchie della nobiltà ove molti bambini erano collocati a corte come paggi. La separazione dei figli in età precoce dai genitori era quindi un fenomeno diffuso.
L’alto tasso di mortalità, esistente a quell’epoca, rendeva assai facile restare orfani in tenera età. C’erano poi i neonati abbandonati, lasciati dai genitori nelle pubbliche vie o portati nei luoghi pii. E’ il tema centrale affrontato dalla storica Reggiani, che ha spiegato come questo fenomeno assunse in Età Moderna dimensioni talmente ampie da essere percepito dai contemporanei come un fatto comune.
Chi erano esattamente gli esposti? Nella società d’antico regime, intrisa da una profonda cultura cristiana che si manifestava nelle forme della pietà e della devozione popolare, era nota la vicenda di Mosè: la cesta contenente il bimbo Mosé era stata lasciata dai genitori non già sul Nilo, ma sulle rive del fiume affinché potesse essere trovata. Questo spiega per quale motivo, sulle orme di una tradizione religiosa che aiutava a percepire il fenomeno come non estraneo alla cultura occidentale, nel Medioevo e nell’Età Moderna le famiglie che abbandonavano i bambini non lo facevano con l’intento di ucciderli, bensì con il fine di affidarli a qualcuno che potesse esercitare quel ruolo ch’essi non potevano svolgere per ragioni economiche.
Se esaminiamo il decreto del 17 gennaio del 1812 emanato nel Regno d’Italia napoleonico, troviamo una definizione precisa degli esposti: “nati da padri e madri sconosciuti, sono trovati in un luogo qualunque, ovvero sono portati nei luoghi pii destinati a riceverli”. Seguiva la descrizione del Luogo Pio: “In ogni Luogo Pio, destinato a ricevere figli esposti, vi sarà una ruota o torno in cui saranno deposti”.
I genitori potevano quindi lasciare il bambino in un luogo pubblico, come nella vicenda di Mosé, affinché il neonato fosse trovato facilmente. Spesso tuttavia il padre o la madre preferivano lasciare il bimbo a un’istituzione assistenziale specializzata, il luogo pio ove “la ruota o torno” consentiva la consegna del bimbo mantenendo l’anonimato dei genitori.
Le persone che vivevano e lavoravano nel luogo pio accudivano i bimbi con la stessa cura di un genitore.
A Milano il primo istituto dedito all’infanzia abbandonata fu lo xenodochio fondato dal sacerdote Dateo (741-799 d.C.) nel 787 d.C.
E’ significativo che tuttora, in piazzale Dateo, abbia sede un brefotrofio attivo dal primo decennio del Novecento. Nel Medioevo si aggiunsero altri hospitali finché nel 1456 la costruzione dell’Ospedale Maggiore rese possibile la formazione di una fitta rete di istituti assistenziali: essi garantirono ai milanesi, almeno fino al 1780, una protezione sociale tra le più avanzate in Europa.
Al 1781 risale la fondazione della casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota. L’istituto, eretto nei locali di un monastero soppresso, si trovava a pochi passi dall’Ospedale Maggiore, nella parte della città conosciuta come “borgo di Porta Romana” tra il Naviglio interno e i Bastioni. Questi spazi sono oggi occupati dai padiglioni del Policlinico. Il brefotrofio di Santa Caterina, attivo dal 1781 al 1863, era finanziato con donazioni ed elemosine private, il più delle volte – come avveniva per la Cà Granda – provenienti dalle ricche famiglie nobili o borghesi.
Il fenomeno dell’affidamento dei bambini alla casa degli esposti presentava diverse modalità. Un quarto degli ingressi avveniva mediante un incontro “ufficiale” tra la famiglia povera e i responsabili dell’istituto. Nel 50% dei casi i bimbi erano messi invece nella ruota, una modalità che garantiva l’anonimato dei genitori. Assieme al bimbo, il genitore lasciava un piccolo foglietto di carta tagliato a metà e una nota in cui spiegava il motivo dell’abbandono. Metà del foglietto era staccata perché, a distanza di tempo, la famiglia intenzionata a riprenderlo potesse riconoscerlo in base all’altra metà del contrassegno.

Interessanti i verbali in cui erano trascritti i biglietti lasciati dai genitori vicino al bimbo. Si legga ad esempio questa nota del 1679:
Illustrissimi Signori, la necessità grande di una povera vedova che pochi giorni sono che le è mancato il marito, ritrovandosi una figlia e non sapendo come tenerla, ha pensato ricorrere alla carità di lor signori…spera dopo bali ita [dopo che sia stata tenuta a balia] di tornare a ricuperarla per carità sia tenuta conto perchè è di legittimo matrimonio.
Non molto diversa la motivazione scritta nel 1839 da un altro genitore:
Io racomando questo mio figlio fu batezato in nome Martino è nasuto il giurno di Santo Martino …nato da legittimo matrimonio, che non ha mai avuto mal cattivo e faco questo per essere in gran bisogno…ho 8 figli viventi … raccomando di fare l’impossibile e di dare subito una balia…che prometto di venire a prendere…io sono abitante in Milano
I bambini erano mandati nelle campagne (spesso nell’alto milanese e nel varesotto…di qui la diffusione del cognome Colombo in quelle zone) presso famiglie affidatarie, le cui balie ricevevano un salario dall’ospedale per allattarli fino al secondo anno di età. Venivano quindi svezzati, educati e impiegati nei lavori agricoli.
Ai genitori che fossero tornati a riprendersi i figli dopo molti anni, la casa degli esposti non chiedeva alcun compenso, diversamente da altri istituti che operavano in Italia e in Europa. In molti casi i genitori se li riprendevano quando avevano raggiunto un’età di 6,7,9 o 11 anni per farli lavorare nell’economia domestica oppure per disporre di persone che fossero poi in grado di accudirli nella vecchiaia.
Dopo l’Unità d’Italia, l’amministrazione della pia casa di Santa Caterina alla Ruota passò in gestione alla Provincia di Milano, che la tenne in funzione fino al 1868. La chiusura della “ruota”, avvenuta in quell’anno, segnò un cambiamento profondo nelle abitudini dei milanesi che versavano in povere condizioni.
«Colombo» diventarono il marchio dei bambini consegnati al Brefotrofio. Parallelamente a quella dei bambini, i registri raccontano un’altra grande storia: il mondo delle balie, le ragazze che il Brefotrofio arruolava per allattare i piccoli ospiti, sia nel breve periodo che trascorrevano in viale Piceno, sia nelle famiglie cui l’ente li affidava. In tutte le province lombarde il lavoro di balia fu per tutto l’Ottocento e parte del Novecento una risorsa economica importante, al punto che il governo austriaco, per risollevare l’economia depressa della Valtellina, ordinò che almeno cinquecento bambini ogni anno vi venissero destinati dal Brefotrofio. Ma l’accoglienza e il trattamento che vi ricevevano era tale che la mortalità infantile – già alta – raggiunse picchi impressionanti: mentre rinomate, e contese tra i brefotrofi di Milano e di Como, erano le balie della provincia di Varese, delle piccole cascine della «campagna asciutta» dove (a differenza che nelle campagne irrigue della Lombardia meridionale, e delle sue enormi cascine popolate da braccianti senza prospettive) i bambini trovavano un ambiente relativamente salubre. Divenivano membri a pieno titolo della famiglia, e spesso insieme alla famiglia partivano verso l’avventura dell’emigrazione oltre Oceano: e questo fa sì che ancora oggi dalle Americhe arrivino in viale Piceno richieste di discendenti – reali o presunti – di piccoli «esposti», alla ricerca delle prove della origine italiane che consentirebbe loro di ottenere la cittadinanza. Sono storie numericamente assai maggiori di quelle, ben più raccontate e celebrate, dei Martinitt e delle Stelline. Mentre i due orfanotrofi non accoglievano che alcune decine di bambini all’anno, al Brefotrofio approdavano ogni anno fino a millecinquecento bambini. Prima nella vecchia sede voluta da Maria Teresa dove oggi, all’angolo tra via Francesco Sforza e via San Barnaba, si trova il pronto soccorso del Policlinico; poi nella nuova, grande sede realizzata nel 1912 sui prati e soprattutto sulle marcite – e infatti la zona veniva chiamata Acqua Bella – dove tutt’ora si trova, a ridosso di piazzale Dateo (scelta toponomastica non casuale: l’arciprete Dateo era stato l’istitutore, nel 787, del primo Brefotrofio), collegata da un passaggio sotterraneo alla clinica per la maternità di via Macedonio Melloni: da cui i piccoli venivano trasportati direttamente dopo il parto, quando la madre comunicava la propria impossibilità a tenerli con sè. Non era un diritto senza vincoli: a poter affidare i bambini al Brefotrofio erano solo donne singole e famiglie cui il parroco avesse stilato la «fede di povertà».
E il legame tra madre e bambino non si spezzava mai del tutto: all’atto della consegna, al certificato d’accoglienza veniva allegata una sorta di contromarca, un segno distintivo che sarebbe poi stato utilizzato per recuperare il bambino se e quando la famiglia d’origine avesse avuto i mezzi per farlo. Nell’archivio che oggi ci si batte per salvare, questi piccoli simboli sono ancora visibili e custoditi. Poesie tagliate a metà, cuoricini ricamate, immagini sacre. Ma a venire riscattati, poi, erano una minoranza; anzi era frequente il caso che la stessa madre arrivasse a portare un altro figlio, e nei registri ci sono casi in cui venire abbandonati sono uno dopo l’altro quattro o cinque fratelli: anche perché non allattando i figli, le madre tornavano subito fertili, pronte per una nuova gravidanza ma alle prese con i medesimi problemi di miseria. Erano i figli di quelli che veniva definito con umanitarismo un po’ peloso «l’ottimo popolo operaio». Poi con la legge sull’aborto e un’Italia finalmente risorta anche economicamente, il flusso dei bambini abbandonati si è interrotto e nel 1964, il Brefotrofio è stato chiuso. Ma ricordare e salvare quelle storie è un dovere sociale, perché sono pezzi di vita vera, frammenti di una storia che appartiene a tutti noi.
Nessun commento:
Posta un commento