sabato 6 novembre 2021

LA MADONNA DEI TENCITT

 Tutto ebbe inizio con la “grande peste” che si sviluppò a Milano negli anni che vanno dal 1629 al 1631, e che sono stati abilmente raccontati da Alessandro Manzoni nel suo romanzo storico “I promessi sposi”, in parte ambientato – come tutti sanno – a Milano proprio in quegli anni.

La peste a Milano era “quasi” un appuntamento periodico, infatti quella raccontata dal Manzoni non fu nè la prima nè l’ultima, ma fu certamente una di quelle memorabili per l’elevato numero di vittime: molte fonti riportano un numero di decessi superiore alle 140.000 unità, e alcuni ne riportano addirittura 165.000 (come scrisse il medico Alessandro Tadino).
Ricerche più recenti hanno ridimensionato questo numero a circa 80.000 unità partendo dalla popolazione presente prima della diffusione della peste (circa 130.000 abitanti tra religiosi e civili) e quella sopravvissuta all’epidemia (poco oltre i 50.000); certamente si tratta di numeri impressionanti in ogni caso.
Ma cosa ha a che fare la peste del 1630 con la “Madonna di tencitt”? Chi o cosa erano i “tencitt”? esiste ancora? dove si trova o dove si trovava?
Iniziamo a rispondere dall’ultimo interrogativo la cui risposta, è: via Laghetto.
Come facilmente immaginabile, via Laghetto ha questo toponimo perché per quasi 500 anni l’area ha accolto le acque del Naviglio fino a formare un vero e proprio porticciolo, destinato  alla movimentazione di merce di vario genere.
Lo fece costruire Gian Galeazzo Visconti a partire dal 1388 affinché venisse agevolato il trasporto dei pesantissimi blocchi di marmo provenienti dal lago Maggiore (il celebre marmo di Candoglia) necessari per la costruzione del Duomo, che arrivavano percorrendo il Ticino e quindi il Naviglio Grande, per giungere a Milano presso il laghetto di Sant’Eustorgio.
La Darsena infatti, con la configurazione attuale, è stata realizzata solo nei primi anni del 1600 già in piena epoca “spagnola”; grazie alla Conca di Viarenna si riuscì a far passare dal Naviglio Grande alla Cerchia Interna il materiale in transito e quindi si studiò quale punto della cerchia interna fosse il più idoneo per avvicinarsi alla nuova cattedrale.
La risposta sappiamo che fu quella di navigare fino a giungere in prossimità della chiesa di Santo Stefano, dopo aver creato appunto un bacino d’acqua in via Laghetto.
Da lì il percorso per arrivare al Duomo via “terra” era sempre faticoso, ma almeno era decisamente più breve rispetto al laghetto di Sant’Eustorgio (circa 500 metri contro 2 chilometri).
Col passare degli anni (tanti anni…) il trasporto dei blocchi di marmo non servì più e sebbene il piccolo porticciolo di via Laghetto venisse usato per altri scopi, come per esempio il trasporto della legna e del carbone, si decise per motivi prevalentemente igienici di interrare il piccolo specchio d’acqua.
Fu l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe nel 1857 (mancava poco all’unità d’Italia) a decretarne la sua fine dopo una visita alla Ca’ Granda, l’Ospedale Maggiore, in quanto verificò di persona che le zanzare e le cattive esalazioni dell’acqua (pressocchè stagnante) rendevano la degenza degli ammalati decisamente più difficile.
E così dopo 469 anni questo breve tratto di via tornò ad essere “asciutta”.
Fintanto che non venne coperto circa 70 anni dopo il Naviglio anche sul retro dell’Ospedale Maggiore, cioè lungo la via Francesco Sforza, via Laghetto era raggiungibile – solo dai pedoni – attraverso un grazioso ponticello.
Un certo Bernardo Catoni, priore degli scaricatori, uscì indenne dalla pestilenza e a titolo di ringraziamento e di devozione verso la Madonna che aveva “miracolosamente” salvato lui e la maggior parte dei Tencitt (cioè dei carbonai, che facevano parte degli scaricatori), posizionò un dipinto a fresco (cioè un affresco) sul muro esterno della casa che oggi si trova tra la via Laghetto e il vicolo Laghetto.
L’affresco, che risale al 1630 circa è tuttora visibile, anche se per preservarlo è stato ricoperto con una apposita protezione, la quale però – purtroppo – riduce anche la possibilità di coglierne appieno tutti i dettagli e le particolarità del disegno.
L’affresco rappresenta la Madonna, alla quale due cherubini tengono sollevati i due lembi del mantello (tecnicamente si tratta di un peplo), mentre protegge San Sebastiano, San Carlo Borromeo e San Rocco, quest’ultimo con l’immancabile cagnolino.
Ai piedi dei santi, sulla destra, si intravede la figura (parte del busto e la testa) proprio di Bernardo Catoni, mentre la parte inferiore dell’affresco è riservata a una panoramica del Lazzaretto con alla destra un corso d’acqua e un ponte sul quale transitano gli appestati in arrivo, mentre sulla sinistra un carico di salme lascia il Lazzaretto per recarsi in uno dei cimiteri disponibili (i fopponi).
Quello più vicino era proprio il foppone di San Gregorio, ma non si deve dimenticare che in determinati giorni morivano più di 1300 persone, per cui si presentavano delle difficoltà oggettive anche per gestire questi ingrati compiti; va ricordato inoltre che la peste era molto contagiosa e quindi i cadaveri dovevano essere trattati con particolari accorgimenti.
Si trova su un cantone, a lato di un’antica osteria: è un affresco protetto da una grande teca raffigurante una Madonna, alla quale due cherubini tengono sollevati i due lembi del mantello mentre protegge San Sebastiano, San Carlo Borromeo e San Rocco.

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