Utilizzati sin da epoche antichissime e sviluppati su tutto il territorio nazionale i mulini conoscono una diffusione sempre più larga a partire dall’anno mille, in particolar modo nella nostra area geografica, dove un consistente lavoro di bonifica e regimazione delle acque portava alla costruzione di alvei e canali opportunamente utilizzabili.
In sostanza si trattava di un complesso sistema delle acque magli o delle marcite.
I primi documenti che ne trattano e che provano a mappare la loro presenza sul territorio sono principalmente documenti censuari, utilizzati cioè per definire reddito e imposte attribuibili a ciascun impianto. Il documento più antico, in tal senso, è la compartizione delle fagie. Redatto nel 1345 per conto Giovanni e Luchino Visconti esso contiene l’elenco di tutti i soggetti che devono contribuire alla manutenzione della viabilità pubblica. Per ogni soggetto si indicano le fagie, cioè i tratti di strada di cui debbono assicurare la manutenzione. Si tratta di documentazione spesso incompleta e che si arresta ai confini della città, ma che testimonia l’attenzione di cui i mulini erano oggetto. In città i mulini erano invece molto meno diffusi a causa dell’assenza di corsi d’acqua veri e propri che la attraversassero. E’ solo a partire dalla metà del XII secolo e dalle opere di ricostruzione dopo la distruzione del Barbarossa che Milano vede fiorire un’intensa attività idraulica per ragioni principalmente difensive ma in seconda istanza anche immediatamente produttive. La deviazione dell’Olona, del Nirone e del Seveso servono a portare acqua a Milano per riempire il fossato che viene scavato a difesa della città. Largo 30 braccia (poco più di 15 m) e lungo più di 10.000 braccia (circa 6 km) il fossato protegge la città ma l’acqua che arriva si presta a essere sfruttata per tutte le attività produttive. A ciò si aggiunge, sempre nel medesimo periodo, l’ampliamento del Naviglio Grande che diventa navigabile e rappresenta la principale via d’accesso per merci e forniture della città.
Da lì in poi i molendina con le loro ruote in legno, doppie o ancor più spesso triple, colonizzano il territorio, segnando il paesaggio. Sono impianti di molitura per i cereali ma anche impianti per la follatura della carta e magli per l’industria. Ripercorrere oggi i nomi di luoghi e canali aiuta a dare un senso alla toponomastica milanese e dei comuni limitrofi: dalla via Nirone in centro a Milano, alla roggia Barona a Trezzano, al Ronchetto, al Redefossi, alle mille varianti collegate al Lambro, il fiume milanese per eccellenza (anche se rimosso dalla – cattiva – coscienza collettiva). E’ in particolare il Lambro Meridionale (o Lambro Merdario) a muovere decine e decine di impianti di proprietà privata, principalmente ecclesiastica.
A partire dal XIII secolo l’utilizzo dell’energia idraulica viene spinto al massimo per soddisfare le esigenze produttive di una città che è, sin da allora, sinonimo di industriosa operatività.
Il sistema idrico milanese continua poi il suo sviluppo sino ad arrivare all’apoteosi ottocentesca di quella Milano città d’acque che oggi pare così lontana dalla realtà. I mulini accompagnano questa storia, ne segnano la politica censoria, vedono i molitori crescere nella scala sociale, pur rimanendo sempre all’interno del ceto produttivo.
Nei secoli ovviamente assistiamo a un’evoluzione ingegneristica del meccanismo molitorio ma anche al perfezionamento delle opere di adduzione delle acque, necessarie per ottimizzare i salti e aumentare la potenza del flusso idrico. Senza dilungarci in particolari tecnici va evidenziato che due sono le tipologie principali dei mulini: il mulino orizzontale o “a ritrecine” e il mulino ad acqua vero e proprio o “vitruviano” con la ruota perpendicolare al flusso dell’acqua. Il mulino orizzontale presentava diversi svantaggi e venne sostituito nel tempo dal quello a ruota verticale già prima dell’anno mille.
La toponomastica milanese ricorda ancora oggi il Molino delle armi (di cui si parla nel già ricordato post sui magli) ma è soprattutto nel territorio attorno alla città che i mulini restano a rappresentare un capitale umano e industriale dilapidato in favore di un’energia “facile” di origine fossile.
A partire dalla copertura dei navigli la città rimuove la sua ricchezza liquida, la marginalizza e la relega nel passato anziché porsi il tema di come sfruttarla adeguandola al cambiamento dei tempi e delle esigenze produttive.
Probabilmente non è mai stato fatto un conto di quanto fosse il potenziale energetico dei molendina nel milanese. Si è preferito uno sviluppo “facile” a base di energie fossili perdendo così la memoria di una rivoluzione energetica che ha segnato il nostro territorio per secoli e aveva (e avrebbe ancora) enormi potenzialità di sfruttamento per la produzione di energia rinnovabile e pulita.
Nessun commento:
Posta un commento