è la prima chiesa cristiana di Milano ed era considerata un tempo la più importante di Milano dopo il Duomo e la Basilica di Sant’Ambrogio.
La basilica collegiata prepositurale di San Babila, conosciuta più semplicemente come San Babila, è un luogo di culto cattolico situato nell'omonima piazza a Milano, alla confluenza di corso Vittorio Emanuele II, corso Europa, corso Monforte e corso Venezia.
San Babila fu il tredicesimo vescovo di Antiochia, successo a Zebennos probabilmente nell'anno 238. Morì martire sotto l'imperatore Decio nel 250, punito per il delitto di lesa maestà: aveva osato giustamente impedire all'imperatore Filippo, omicida, l'ingresso nel tempio. Insieme a san Babila morirono tre fanciulli: Urbano, Prilidiano ed Epolonio, figli di Teodula che li aveva affidati a Babila per educarli nella fede cattolica.
Il culto di san Babila, assai diffuso in Oriente, arrivò ben presto anche in Occidente, soprattutto in Francia, in Svizzera e in Spagna. In Italia è venerato, oltre che a Milano, anche a Cremona e Firenze come protettore della purezza e castità sacerdotale.
La chiesa antica ha origini ancora controverse, alcune fonti parlano di un edificio adibito ad aula per le funzioni nei pressi di un antico tempio romano, secondo la tradizione l'edificio fu infatti eretto sulle vestigia del Concilium Sanctorum (Concilio dei santi), primitiva residenza del clero missionario orientale, sorto nel secolo VII sulle rovine di un tempio pagano dedicato al dio Sole.
Pare costruito dall’arcivescovo Lorenzo nel V secolo e qui venivano sepolti i primi cristiani. La confusione a tal proposito riguardava anche la vicina chiesa di San Romano (oggi scomparsa), anch’essa di origini antiche e che per molte fonti veniva interpretata col tempio pagano o come Concilium Sanctorum. Resti romani di importanza nella zona attorno alla basilica per verificarne le origini antiche non ne sono mai stati trovati, solo alcune tombe, pozzi e lapidi. Leggende la vogliono addirittura fondata e consacrata dall’Apostolo Barnaba nell’ “anno 46 circiter” dove egli – per la prima volta a Mediolanum – celebrava la messa cristiana.
Gli storici dell'arte e dell'architettura lombarda hanno accertato che la costruzione della basilica risale agli ultimi decenni del secolo XI, sorta nei pressi delle allora mura della città.
Anche il Cesa Bianchi, in occasione del restauro-rifacimento tardo ottocentesco, oltre a rimettere in luce le murature romaniche, cercò prove della sua antichità, ma, come ricorda egli stesso al Boito, “per quante indagini abbia fatte non ho trovato nessuna traccia”. La testimonianza più antica della chiesa intitolata a san Babila si trova nella Historia Mediolanensis di Landolfo Iuniore (1140 c.) dove, riferendosi a un moto popolare del 1096, si cita “clericus iste Nazarius, in ingenio acutissimus et Muricola cognominatus” che accorse “ad ecclesiam sancti Babile santique Romani, que antiquitus dicitur Concilia Sanctorum”. Vi è anche una pergamena del 1099 dove per la prima volta viene nominata la basilica di San Babila; in essa Berengario, figlio di Ambrogio, lascia alcuni beni alla chiesa.
La chiesa eretta in quegli anni aveva una forma particolare, non consueta per il gusto romanico milanese, infatti si trattava di un’aula suddivisa in tre navate a loro volta suddivise in tre campate rettangolari. In alzato la campata intermedia era conclusa da un tiburio ottagonale, mentre le altre due erano coperte da volte a botte, contraffortate all’esterno con elementi perpendicolari per il contenimento delle spinte. A levante la basilica presentava una zona presbiterale absidata per ogni navata.
Completamente costruita in mattoni, aveva l’aspetto tipico del romanico lombardo. All’interno i pilastri di pietra a fascio portavano le volte a crociera delle navate laterali, ma sembrano preparati per un’analoga soluzione centrale, da qui i molti dubbi sull’effettivo soffitto a botte piuttosto che un soffitto a crociera della basilica originale. All’esterno i contrafforti, le arcatelle a galleria e gli archetti ciechi formavano la cornice dell’abside mediana, alta come la navata maggiore. Gli archetti ciechi correvano poi a concludere in alto la nave centrale e il tiburio, dove su ogni lato si aprivano anche leggere finestre a trifora.

La chiesa nel XIX secolo aveva ancora l’aspetto barocco realizzato da Aurelio Trezzi tra il 1598 e il 1610, ma siccome era molto mal ridotta rischiò persino la demolizione. Grazie al ritrovamento delle colonne originarie e dei bellissimi capitelli alto medievali, si procedette allo spoglio dell’edificio dalle decorazioni barocche e secondo un progetto di restauro (oggi giudicato eccessivamente invasivo e arbitrario) Paolo Cesa Bianchi, cercò di recuperare il più possibile con integrazioni in stile. Il lavoro di restauro proseguì con la realizzazione di una nuova facciata neo-medievale di Cesare Nava (cfr. la chiesa del Santo Sepolcro) nel 1905 e si concluse nel 1929 con la trasformazione romanica del campanile del primo Ottocento.
Pare comunque che la costruzione romanica sia stata effettuata con materiale di reimpiego (frammenti di epoca romana e mattoni rotti), specie nella zona absidale come descrisse il canonico G.B. Villa alla fine dei lavori di rifacimento dell’epoca barocca. Anche nella realizzazione dei pilastri si usò materiale di spoglio, recuperato alla meglio, come è emerso qualche decennio fa nel restauro del terzo pilastro, che si mostrò concavo all’interno e riempito con mattoni, rivelando così l’utilizzo del fondo di una tomba con funzione strutturale. Non si conosce la primitiva facciata, unico indizio lo si è trovato negli Atti della prima visita di Carlo Borromeo alla chiesa nel 1567, precedente quindi alla risistemazione, la facciata aveva un solo portale d’ingresso, davanti al quale si trovava un cimitero con diversi avelli di pietra. Carlo Borromeo chiese che venisse realizzato un pronao per poter battezzare in caso di pioggia (la chiesa era ancora priva di un battistero). Un’ altra zona cimiteriale si trovava sul lato sinistro della chiesa, recintata ed estesa fino al vicino oratorio di Santa Marta, sorto proprio per la devozione ai defunti.

Dopo le distruzioni del Barbarossa del 1162 la cinta muraria della città venne spostata di oltre duecento metri tanto da inglobare la nostra basilica, perciò San Babila assunse sempre più importanza e ampliò anche la sua area parrocchiale.
Il pavimento era di pietra. In aggiunta all’altare maggiore, posto al centro dell’abside, sulla cui parete era appesa un’ancona “pulcherrima”, gli altari in quegli anni erano sette. Due erano racchiusi nelle absidiole laterali: quello di San Giulio, disadorno, nella sinistra e quello di San Nicola e della Madonna nella destra; quest’ultimo, consacrato intorno alla metà del XIV secolo, dal 1457 era sede della Scuola di Santa Maria delle Grazie.
Percorrendo i due lati dell’aula, nella navata laterale sinistra c’erano tre altari, direttamente appoggiati al muro. “In fundo ecclesiae costructum” si trovava l’altare di San Lucio, dove si sarebbe dovuto collocare il nuovo battistero; poi un altro altare disadorno, del quale non è data la dedicazione, sistemato sotto l’organo che a sua volta poggiava su due colonne. Tra questo e l’altare successivo, dedicato a San Girolamo, anch’esso “male onrnatum”, si apriva una porticina che collegava al cimitero.
Nel lato destro, “sub prima fornice” dopo il campanile appoggiato alla fronte, si apriva la cappella con l’altare del Corpus Domini, patrocinato dalla confraternita del SS. Sacramento, eretta intorno al 1520, venne indicata nel secolo scorso come opera del Bramantino o di Cristoforo Solari. Aveva le pareti “pulcherrime pictae”, i cancelli di ferro sul davanti e ben quindici finestre tonde vetrate per la sua illuminazione: una per ogni parete della cappella, di pianta quadrata, e tre per ogni lato del tiburio soprastante. Una bellissima pala dalla ricca cornice dorata, attribuita in uno scritto di fine Cinquecento a Giovanni Crespi (sparita), era posta sopra la mensa. Proseguendo lungo la navatella destra, si incontrava un piccolo altare secondario che le ordinazioni del visitatore propongono di spostare vicino alla pila dell’acqua santa all’ingresso. Subito dopo, forse in corrispondenza di quella sull’altro lato, si apriva la porta laterale verso corso Monforte, una delle poche cose rimasteci di questa sistemazione, dopo di che ci si ritrovava davanti all’abside destra. Durante una visita pastorale fatta il 30 aprile 1591 da Gaspare Visconti alla collegiata, viene fatto notare come la chiesa sia troppo vetusta e bisognosa di un restauro, specie dopo il crollo del vecchio campanile avvenuto nel 1575 e che grazie al cielo non aveva procurato alcun danno. Viene incaricato Aurelio Trezzi, ingegnere collegiato di Milano, già successore del Pellegrini nella Fabbrica del Duomo per il restauro e la ricostruzione dell’edificio secondo le nuove esigenze della Chiesa. Le absidi del coro vengono demolite per far posto ad un coro più ampio e squadrato. Nel 1604 si costruiscono le murature della cappella maggiore, posta nell’abside centrale, cui si accede mediante nuovi gradini di marmo mischio (lavorazione di diversi marmi tipica del barocco). La chiesa viene prolungata di una campata per ospitare un crescete numero di fedeli così la vecchia facciata fu demolita. Tra il 1598 e il 1610 venne realizzata la nuova facciata del Trezzi, dalle forme pellegriniane, dove prevale l’orizzontalità e l’ampio sviluppo del piano inferiore rispetto a quello soprastante. Al centro si apre il ricco portale, allineato con la finestra superiore; ai lati due semplici porte in basso e sopra, ma non in corrispondenza, due nicchie. Nessun elemento scultoreo adorna la fronte; la caratterizzano soltanto dei rami di palme in bronzo, in parte dorato, e la croce, posta al culmine dei timpano.
Si interviene anche nel tiburio, la sua copertura viene rialzata e sugli otto lati si delineano otto finestre con cornice di stucco decorata: quattro sono chiuse da vetrate, mentre le altre quattro restano tamponate in muratura con le finte vetrate, dipinte da “Gio. Batta Albesio pittore”. All’interno viene ornata sempre con stucchi e con un cornicione sottostante. Le pareti e le volte dell’aula sono completamente reintonacate. I vecchi capitelli romanici vengono ricoperti da stucchi così da diventare degli elementi classici.
Intanto nel 1606, in attuazione di una disposizione di Carlo Borromeo dopo la visita del 1567, si era costruita nel lato della navata sinistra una nuova cappella, simmetrica e simile nella forma a quella del Corpus Domini, che verrà dedicata proprio a San Carlo, beatificato in quegli anni.
Passano i secoli e si arriva all’inizio dell’Ottocento dove le preoccupazioni per lo stato in cui versa la basilica sono preoccupanti. Intanto diventava sempre più grave il problema dell’umidità, le cui infiltrazioni avevano disgregato il pavimento e, per l’effetto di risalita, anche le murature e i pilastri. Una relazione del 1826 ricorda che tenere funzioni specie in estate risultava insalubre tanta era la puzza di umidità che si respirava.
La ristrettezza delle finestre, l’affossamento del piano di pavimento rispetto a quello stradale e l’altezza sempre maggiore delle case vicine vennero considerate le cause di questa malsana situazione. Si pensò quindi di demolirla e di ricostruirne una nuova. Per fortuna le difficoltà finanziarie della Fabbrica e l’ostilità dell’autorità civile bloccarono l’iniziativa; di conseguenza si procedette al restauro della vecchia costruzione.
Si aprirono e chiusero delle finestre in modo da creare una migliore areazione dell’interno; si realizzò un nuovo altare maggiore e di conseguenza si alleggerirono le decorazioni barocche. Nel 1829 il pittore Giuseppe Bramati riaffrescò l’interno della chiesa con figure di santi, evangelisti e angeli.
Nel 1852 ancora il problema dell’umidità non è stata risolto e si cerca una soluzione togliendo il vecchio pavimento, scavando nella parte sottostante e creando un sottofondo di ciottoli di fiume dello spessore di più di un metro per il drenaggio e insieme l’areazione. Si dubita però del risultato perché questa operazione non impedisce il risalire dell’acqua attraverso le murature oramai impregnate e malconce. Va anche ricordato che l’intero muro laterale destro, affacciante sul Monforte, nei secoli era stato affiancato da un altro muro, allineato con la sporgenza della cappella del Corpus Domini, creando così un’intercapedine che certo non aiutava la ventilazione lungo tutto quel fianco meridionale. Di nuovo si parla di “una riedificazione qualunque sia dalle fondamenta”. Ma ancora la mancanza di fondi ferma il progetto. Si comincia allora a pensare a un restauro.
Così si arriva alla decisione, per risolvere il problema dell’umidità si deve intervenire sull’edificio intero, oramai insalubre e viene incaricato l’architetto Paolo Cesa Bianchi di studiare un nuovo progetto (15 gennaio 1881). Il ritrovamento, come abbiamo già visto, dei capitelli romanici e delle vecchie murature dei pilastri assieme all’‘attenzione per l’architettura romanica, considerata la grande espressione dell’arte lombarda che andava di gran moda in quel periodo storico, inducono ad un ripristino storico della chiesa. In tale ambito, insieme filologico ed eclettico, va quindi inserito il progetto del Cesa Bianchi per la nostra chiesa. Così si decide per una “ricostruzione” filologica. La ricostruzione incontrò da subito alcune difficoltà, come la mancanza di indizi e troppe parti rifatte in epoca barocca. La parte più problematica riguardava le tre absidi, demolite e ricostruite all’epoca del Borromeo più ampie e con le due laterali di forma rettangolare, secondo le norme liturgiche del tempo. Nel giugno del 1882 si decide quindi di abbatterle per ricostruirle sul tracciato di quelle romaniche, delle quali si era trovata la base.
Egli le risolve quindi in modo nuovo. Per le due laterali progetta un semplice paramento murario di mattoni a vista, entro cui si apre una finestrella strombata, concluso in alto da una cornice di archetti ciechi. Un analogo motivo, sormontato da una galleria ad arcatelle, fu adottato per quella centrale, più alta, dove però “a novazione” vengono ideate tre finestre, giustificate dal “bisogno di luce” sempre presente.
Certamente la mancanza di un supporto documentale rese più difficile le scelte progettuali; ma nel marzo 1889 erano completate.
Un problema analogo si ripropone per il tiburio che era oramai diventato una tribuna barocca. Ma fortunatamente qui con un sapiente lavoro di ripulitura fin dal 1881 emersero ampie partiture dell’ antico, con tracce di finestre e arcate romaniche; all’esterno riaffiorano parti di “una loggia in tre campi d’arcate su colonnine isolate per ciascun lato”. Così nell’intervento, anche per sopperire all’umidità, il Cesa Bianchi apre quattro finestre, benché sia consapevole della loro maggior ampiezza rispetto alle originali. Poste sugli assi della chiesa, si inseriscono nella soluzione delle pareti esterne in “una loggia a tre archi sopra due colonnine”, motivo che si ripete, cieco, per gli altri quattro lati. Sopra, a completare la muratura, su tutte le otto facce del tiburio corre una doppia cornice ad archetti ciechi, in rapporto modulare, che termina sotto le falde del tetto.
La progettazione delle pareti esterne della chiesa, che fu affrontata nella seconda fase dei lavori, studiò, proprio per la difficoltà del tema, soluzioni diverse nel tempo. Nel lato verso corso Monforte si decise subito di eliminare le murature che formavano un corridoio tra la facciata e la cappella del Corpus Domini, dedicata nel frattempo a san Francesco, collegandola poi con l’abside destra; rimaneva il problema della definizione del fianco e dell’aggetto esterno della cappella, non coeva, ma rinascimentale. Mentre per la decisione riguardante le navate – più bassa la laterale, più alta la maggiore- si scelse di utilizzare una semplice muratura di mattoni a vista, conclusa in alto da una cornice di archetti ciechi e scandita da contrafforti, per la cappella si ritrovano, nei disegni rimastici, due proposte. La prima, che fa parte del progetto conservato nell’Archivio parrocchiale, mostra un diverso trattamento del suo corpo aggettante, che manifesta la sua origine rinascimentale, ma che è risolto in modo sobrio, pur nella differenza dello stile; il secondo progetto, del 15 novembre 1888, non ne muta le forme, ma le arricchisce con la decorazione. Nel 1915 si riapri invece, dopo molti dubbi, la porta laterale di ingresso, che già esisteva nel periodo federiciano e che era stata in seguito tamponata e coperta da un affresco.
Rimaneva da ultimo il problema della nuova facciata, visto che in questo caso non si poteva fare alcun richiamo a quella romanica, demolita all’inizio del Seicento per allungare l’aula; di queste si erano trovate però le fondamenta nella posizione originale. Si trattava di una vera e propria progettazione ex novo in stile. Ma questo non fermò l’opera. Anzi, tale mancanza non fu considerata grave “giacché la semplicità della costruzione del fianco, la semplicità delle fronti antiche” di chiese con gli stessi caratteri permise di definire la nuova facciata.
Scandita verticalmente in tre parti, corrispondenti alle tre navate interne, presenta in ognuna un portale, sormontato da una finestra. Il motivo è semplice nelle laterali, più ricco e decorato nel corpo centrale. Per la conclusione superiore è riproposta la decorazione ad arcatelle cieche che corre così per l’intero edificio, diventandone l’elemento caratterizzante.
Con la conclusione della fronte nel 1906 si competa quello che allora venne definito “risanamento” e “generale restauro” dell’edificio; in realtà queste opere dettero all’antica costruzione un aspetto che non aveva mai avuto nei secoli, ma che rappresentava, come si e detto, una espressione caratteristica della cultura milanese del tardo Ottocento. In tale veste la chiesa è giunta fino al nostro tempo.
Arrivò la Seconda Guerra Mondiale con le sue dirompenti bombe del 1943. Anche la nostra piccola basilica subì i danni bellici. La facciata venne colpita nella parte centrale e la grande finestra trifora e il trave del portone principale furono gravemente danneggiati assieme a tutto il lato sinistro distruggendo le cappelle.
La ricostruzione e il restauro avvenuto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale spogliano quasi completamente la chiesa delle decorazioni neo-romaniche e degli oggetti aggiunti sempre alla fine dell’Ottocento. Viene ricostruita in veste moderna la nuova cappella dell’Addolorata. Ultimo intervento è stato fatto negli anni Novanta dove sono stati eliminati alcuni elementi di intralcio, come le balaustre davanti alla zona presbiterale ed è stato smontato il pulpito Ottocentesco per rimontarlo a formare un ripiano per le letture dei vangeli.
La decorazione ottocentesca fu affidata a Luigi Cavenaghi, allievo di Bertini. Cavenaghi era un noto restauratore (suo il restauro dell’ Ultima cena di Leonardo) e pittore dalla produzione limitata; i suoi dipinti in San Babila sono infatti una testimonianza piuttosto rara. Realizzati a tempera su intonaco, si stagliano su di un finto mosaico in “similoro”. I personaggi, dai quali traspare una profonda gravità religiosa, sono dipinti in costume tra lo storico e il fantastico.
Nell’abside della navata destra: sono raffigurati i santi Pancrazio, Agnese e Luigi, che è inquadrato dalla ghirlanda.
Abside centrale:di mano dell’artista si possono osservare solo le decorazioni geometrico floreali che circondano il mosaico e le finestre. Cavenaghi, nel 1890, dipinse il catino absidale, che successivamente, nel 1928, venne ricoperto dall’attuale mosaico. Di medesimo soggetto, sia il dipinto sottostante, sia il mosaico che lo ricopre, esso rappresenta san Babila con i discepoli Prilidiano, Urbano e Epolomo. A destra, alla base del mosaico.
Lunette sotto la cupola: anch’esse dipinte da Cavenaghi, furono successivamente ricoperte dagli attuali mosaici dalla società Venezia-Murano. Sono raffigurate le immagini del Cristo e della Vergine in trono fra i santi. Nella lunetta sinistra vi è il Redentore tra i santi Ambrogio, Barnaba, Giulio e Lorenzo. Nella destra, presso la Vergine, sono le sante Maria Egiziaca, Marcellina, Monica e Tecla.
Nella parete perimetrale, a fianco dei quadri raffiguranti il Sacro Cuore e san Giovanni Bosco, è incassato il dipinto dedicato a santa Maria delle Grazie. Si tratta di una tempera ottocentesca di autore ignoto che ricopre un affresco di medesimo soggetto. L’ affresco sottostante, piuttosto abraso, fu eseguito nel 1500 per volere della confraternita di Santa Maria delle Grazie.
La basilica di San Babila è inserita nella storia profana e religiosa di Milano, ad essa sono legati il movimento civico del libero Comune e quello religioso della Pataria. Presso la basilica hanno avuto origine, con il concorso dei suoi Canonici, le gloriose «Cinque Giornate di Milano»: da qui i cittadini mossero verso il Palazzo del Governo in Corso Monforte (attuale sede della Prefettura) per ottenere la costituzione della guardia civica. La barricata di San Babila fu una delle più attive e la vicina Porta Orientale fu la prima sulla quale fu issata la bandiera tricolore.
Battistero
Architettura: venne costruito nel 1937 dall’architetto Alfonso Orombelli. La volta è impostata su quattro colonne angolari che richiamano lo stile paleocristiano. È interessante l’abbinamento di materiali semplici, i mattoni a vista degli archi e delle pareti, il granito grezzo delle colonne, con la preziosità della volta a mosaico d’oro e le incorniciature angolari di marmo nero nuvolato.
Scultura: la pala bronzea e il fonte battesimale sono la prima opera d’arte sacra di Fausto Melotti. La pala è composta di due scene sovrapposte: al di sotto, la predicazione del Battista tra i discepoli e i farisei; al di sopra, il battesimo di Cristo. Ai lati della pala vi sono due candelieri su di un alto piedistallo, nel quale sono rappresentati a due a due i simboli degli evangelisti.
Il fonte battesimale è costituito da un pilastro quadrato di marmo, vuoto all’interno, rivestito di porfido egiziano. Su tre lati del pilastro, in apposite nicchie, vi sono le sculture bronzee raffiguranti la Fede, la Speranza e la Carità.
Sul coperchio scorrevole, per il quale l’architetto Orombelli ideò il blocco di quarzo, sta il gruppo bronzeo degli angeli. Questi reggono la veste battesimale in argento, che poggia sul quarzo luminoso.
Le quattro virtù cardinali sono richiamate da simboli in rilievo sugli sportelli di rame e bronzo degli armadi a muro; il serpe per la prudenza, la bilancia per la giustizia, il leone per la fortezza, il morso per la temperanza.
Il cimitero
Nel 1734, quando G. B. Riccardi delineò la sua Iconografia della Città e Castello di Milano, una precisa e importante rappresentazione della città, pensò di circondare la grande planimetria centrale con una serie di vedute che, insieme al Castello, al Lazzaretto e al Duomo, descrivevano i maggiori edifici religiosi. Tra questi, sulla destra, troviamo San Babila con la sua nuova facciata, il tiburio e il lato verso il Monforte. Nell’illustrazione, davanti e sul fianco della chiesa, fino a incontrare l’oratorio di San Romano, si nota uno slargo di stretta pertinenza, delimitato da pilastrelli. Tale soluzione, che definiva la superficie di proprietà della chiesa rispetto allo spazio civile, fu realizzata dopo il restauro dei primi anni del Seicento in seguito alle ordinazioni di Federico Borromeo (1615) che richiedevano specificamente una recinzione della zona mediante “columnellis lapideis” per ben precisare l’area sacra e i suoi diritti di immunità.
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