giovedì 30 settembre 2021

TEATRO SANTA REDEGONDA

Nasceva nel 1803 (stesso anno in cui vedeva la luce il teatro Carcano) sull’area di un convento che gli storici facevano risalire addirittura ai tempi dell’imperatore Berengario.
Qui risiedevano le monache di Santa Redegonda, tra le quali suor Teresa Francesca Guineani, che acquistò notorietà per la sua grande passione per la musica. Insomma una vera e propria suor Cristina ante litteram
Il teatro ospitò dapprima spettacoli di marionette, ma presto ospitò rappresentazioni musicali e pure recite di moderne commedie.
Il Teatro Santa Radegonda, pur essendo vicino al Nuovo Regio Ducal Teatro, non ne temeva la concorrenza, anche perchè il pubblico che seguiva gli spettacoli, era di ceto socialmente inferiore rispetto a quello più pretenzioso, della Scala.
Nel tentativo di arginare il malcostume dilagante in tutti i luoghi di ritrovo, una disposizione tassativa del governo austriaco del 1788, vietava tassativamente in città il gioco d’azzardo, eccetto che alla Scala, nelle sole giornate di spettacolo.
Il teatro di via Santa Radegonda, a differenza della Scala, era frequentato prevalentemente dalla media borghesia, desiderosa di cominciare a godere pure lei, dei divertimenti che fino ad allora, erano stati riservati unicamente alla nobiltà. Naturalmente anche le esibizioni degli attori e dei cantanti venivano viste ed apprezzate con occhio totalmente diverso, da un pubblico che, alla lunga, essendo molto meno distratto da attività collaterali non previste, cominciava a diventare, culturalmente, di veri intenditori. Il teatro si conquistò così ben presto notorietà, non solo per gli spettacoli presentati, ma pure perchè favoriva l’esordio di diversi giovani nuovi talenti.

 Si ricorda che nel 1810, una giovane poco più che quattordicenne, una certa Carlotta Marchionni, incantò il pubblico per il suo brio e per le ottime interpretazioni. La famosa Madame de Staël (1766-1817) scrisse di lei che “possedeva il genio della sua arte” e Carlotta sarà la prima, applauditissima interprete della tragedia di Silvio Pellico “Francesca da Rimini”, la sera del 18 agosto 1815.
Carlo Re, facendo leva su una accorta politica di prezzi, leggermente inferiori rispetto alla media degli altri teatri in zona, e su un cartellone di tutto rispetto, che alternava rappresentazioni teatrali a serate musicali, non ebbe difficoltà a prevalere ben presto sugli altri teatri (il Carcano di Porta Romana, il Lentasio, il Patriottico, il Gerolamo) oltre che la Cannobiana. La concorrenza fu così accanita che nel 1807, gli altri impresari, invidiosi per tanto successo, tentarono, senza riuscirci, di prendere in affitto il Radegonda offrendo più di quanto richiesto, unicamente per tenerlo chiuso, affinchè non potesse nuocere agli altri teatri.
Visto il successo che stava avendo la sua attività, le ambizioni di Carlo Re non si fermarono al semplice teatrino in legno. Senza consultarsi preventivamente con la Franzini, fattosi fare un progetto di ristrutturazione pesante degli interni in modo da rendere il teatro più confacente alle nuove esigenze, l’aveva presentato in Comune, per l’autorizzazione a eseguire i lavori. Il progetto già approvato dalla commissione d’Ornato, venne però impugnato dalla Franzini che vinse il ricorso contestando il diritto dell’affittuario ad effettuare lavori di carattere straordinario. Questa presa di posizione della proprietaria incrinò il sodalizio fra i due, al punto che il Re decise di andarsene dal Santa Radegonda per fare un altro teatro, tutto suo.
Tornando al Teatro Santa Radegonda, la Franzini, con l’attività già ben avviato precedentemente da Carlo Re, ebbe inizialmente vita relativamente facile, nonostante la sua scarsa esperienza, riuscendo addirittura nell’ambiziosa impresa di mettere in scena qualche opere lirica più alla moda.
Ma un altro gran nome esordì al Santa Radegonda: il diciassettenne Giovanni Pacini, dapprima apprezzato compositore in tema di farsa musicale (vedi ad esempio “Annetta e Lucindo”) e, successivamente, della tragedia lirica con “Saffo”.
Nel 1817 venne rappresentato il “Barbiere di Siviglia” di Rossini e l’anno dopo “Otello” dello stesso autore. Il pubblico frequentava con piacere questo teatro, tanto che la sala era spesso stracolma di spettatori. L’architetto e storiografo Paolo Mezzanotte (1878-1969), pur non avendo vissuto ai tempi del Santa Radegonda, scrive nei suoi “Itinerari sentimentali per le contrade di Milano” (quattro volumi, 1954-1958) che sul palco si facevano pure esercizi d’abilità con strani trabiccoli che potremmo definire trisavoli della bicicletta, spingendoli in modo quasi artistico.
Col passare del tempo però, la Franzini, data la sua scarsa esperienza nel campo, non riuscì a sostenere la concorrenza di Carlo Re.
I bilanci cominciarono a non quadrare più e il Teatro Radegonda decadde rapidamente, lasciando il campo libero al Teatro Re. Finì col ridursi a una semplice sala di pubblico ritrovo, fino a quando, nel 1850, la nuova proprietaria, una nipote della Franzini, tale Barbini in Monti, fece restaurare la sala con una certa ricercatezza. Il teatro continuò a essere attivo con alti e bassi, conoscendo una vera e propria rinascita quando passò nelle mani di Edoardo Sonzogno, titolare della celebre casa editrice di famiglia, che, nel 1875, si adoperò anche come impresario teatrale. Introdusse l’illuminazione a gas nel teatro, facendo rivivere al Santa Radegonda alcuni anni d’oro, grazie anche un cartellone di tutto rispetto con diverse opere liriche tra le più note. L’esperimento milanese del Sonzogno terminò però già nel 1880 e la sala tornò ad essere abbastanza anonima.
Per tentare di rilanciare l’ambiente, si tentò nel 1881 di riconvertire il teatro in sala da ballo, smontando il palcoscenico per far posto alla pista, ma la cosa, anche se all’inizio riscosse discreto successo, non ebbe vita lunga. Eravamo agli albori di un cambio epocale:l’arrivo dell’elettricità!
Purtroppo, nel 1881, il teatro iniziò il proprio declino con rappresentazioni sempre più sporadiche finché, l’anno seguente, venne abbattuto per lasciare spazio alla centrale termoelettrica della società Edison. Con la sua ciminiera in mattoni, alta più di cinquanta metri, che i milanesi osservavano svettare a poca distanza dal Duomo, la centrale, prima in Italia, stava per lanciare un preciso segnale: un nuovo tassello, relativo all’auspicata rivoluzione industriale, veniva inequivocabilmente posto.

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