La bottega di cui si parla era la bottega del Giacomin, “el ferrascin”, il fabbro ferraio, personaggio la cui memoria si è perpetuata fino ai giorni nostri.
Era situata nella piazzetta di Via F.lli Zoia ove spicca una colonna dorica fatta erigere nel 1746, come si legge chiaramente nel basamento, la Crocetta della Peste, dove di fronte a questa piccola piazza, vi era una piccolissima ex chiesuola “la gesieul” in questi anni ridotta a bottega e un tempo, annessa ad una villa settecentesca - la Villa Rosnati .
La sua era una bottega per modo di dire, un anfratto nero di fuliggine.
Una grande fucina con un soffietto occupava una parete e terminava con un grosso camino; un banco con la morsa, un incudine incastonata su di un ceppo e una serie di pinze, martelli, mazzette e scalpelli.
Vi erano verche di ferro, profilati e tanti ferri di cavallo.
Il fabbro non ferrava solo i cavalli ma metteva in ordine gli aratri, aggiustava le prime macchine per la fienagione, affilava le lame per le falciatrici e sostituiva i lamini rotti, assieme al falegname costruiva e riparava i carri e le ruote che si rompevano.
Dagli abitanti del luogo veniva ricordato come una persona dalle mani d'oro.
Il suo lavoro una vera arte, era strategico per l'economia del tempo, basata sul massiccio impiego dei cavalli.
Era un lavoro duro, faticoso, quasi proibitivo in estate , la necessità quindi di integrare molti liquidi. Aveva però una grande passione per il vino, che comunque gli procurava qualche problema di salute, e, non era raro vederlo tornare alla propria abitazione "alticcio" appoggiato alla sua bicicletta per rimanere in equilibrio.
Con l'avvento della meccanizzazione dal secondo dopoguerra, e la dismissione dei cavalli da lavoro, il lavoro del maniscalco non aveva più motivo di esistere.
Giacomo Gervasoni allora riconvertì la sua attività verso la lavorazione del ferro battuto, costruendo infissi, balconi e ringhiere.
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