sabato 23 ottobre 2021

PROSTITUTE CONVERTITE AL PASQUIROLO

nel medioevo la prostituzione non costituisce un serio problema per nessuno. Solo nel XIV secolo inoltrato le autorità laiche si preoccupano dei bordelli e impongono autorizzazioni a chi vuole gestirne uno. A Milano, nel 1387, viene emanato un “decretum contra meretrices et lenones” che cerca di regolare il fenomeno. E’ il nuovo signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, che lo impone alla città mirando in particolare ad un determinato luogo - il Pasquirolo - dove le prostitute sembra si fossero concentrate nei decenni precedenti. Un successivo decreto del 1390 cerca di regolamentare in modo più serio il fenomeno forse alla ricerca di un maggiore decoro per la capitale dell’imminente ducato. Nasce così il "castelletto".
A partire probabilmente dalla metà del ‘300 in un isolato del Pasquirolo si erano concentrate numerose “case” di meretrici, che erano state circondate da un recinto. L’isolato in questione era compreso tra la contrada di San Zeno e la contrada di San Martino in Compito che proseguiva verso l’attuale Verziere prendendo il nome di contrada di San Giacomo in Raude. Oggi tutta la zona del Pasquirolo è stata trasformata completamente dalla creazione di piazza Beccaria e dall’apertura di Corso Europa, ciò nonostante l’isolato di cui parliamo è ancora perfettamente riconoscibile perché coincide con il palazzo dei Vigili. Al tempo di Gian Galeazzo c’erano tre case affidate la prima ad Elisabetta, la seconda a Lita e Paneria, la terza in affitto per 140 fiorini e per 3 anni alla matrona Guglielminetta Fiamminga. Al centro dell’isolato c’era anche un’antica chiesa dedicata a San Giacomo Rodense o in Raude,(San Giacomo “a Rò” è attestata tra le “capelle” di Porta Orientale della città di Milano alla fine del XIV secolo . Elencata alla metà del XV secolo tra le parrocchie di Porta Orientale nella città di Milano "Status ecclesiae mediolanensis", è attestata come “ecclesia di San Giacomo de Raude alias Francisci Cadamosto” nel 1564; nel 1570 risulta già oratorio, di patronato Rho, nella parrocchia di San Martino in Compito)  succursale della parrocchia di San Martino. Gian Galeazzo impone che il recinto sia sostituito da un muro con una sola entrata dalla parte dell’attuale via Beccaria, entrata che dev’essere chiusa durante la notte da un custode eletto e pagato dalle prostitute. (Ecco fatto il primo “condominio” di Milano!)
Questa prima “casa chiusa” si chiamerà perciò d’ora in avanti il Castelletto (clauxura casteleti) ed è definita locum publicum, cioè sotto tutela dell’autorità municipale. Una volta legalizzato il mestiere, anche sulle meretrici iniziano a fioccare norme specifiche volte specialmente ad abbassare il loro status sociale che tendeva ad elevarsi in seguito ai loro lauti guadagni. Nelle leggi suntuarie del 1414, ad esempio, si proibisce loro di portare “coazie”, i treccioni che scendevano quasi fino a terra molto di moda in tutto il XV secolo, e le si obbliga a indossare una mantelletta di fustagno alta non più di un braccio (circa 60 cm).
L’industria del Castelletto doveva essere piuttosto prospera. Bisogna pensare che i bordelli a quel tempo, e per molti secoli a venire (fino al 1880 circa), erano piuttosto simili a saloon del Far West, con ambienti per far musica, ballare, giocare d’azzardo, oltre ovviamente alle camere delle ragazze. Non stupisce quindi che Francesco Sforza, nella sua riorganizzazione degli incarichi pubblici, accomuni sempre bordelli e giochi d’azzardo.
Questi divieti riguardavano le attività che, a differenza di quelle del Castelletto, non erano autorizzate. Le fortune del postribolo pubblico del Pasquirolo continuano durante tutto il periodo sforzesco e probabilmente sono ancora maggiori negli anni turbolenti del ‘500 quando gli eserciti francesi, svizzeri, spagnoli e tedeschi scorrazzavano per la Lombardia portando fame e peste alle persone per bene e molti soldi ai bordelli. I guai cominciano con l’arrivo a Milano - nel 1565 - del nuovo arcivescovo Carlo Borromeo. Oltre alle numerose iniziative per la prevenzione e il recupero delle meretrici, il futuro San Carlo attacca subito il nemico per vie dirette e indirette. Già nel 1567 si inizia a parlare della soppressione del postribolo o almeno di ridurre gli ingressi ad uno solo, da cui si desume che le direttive di Gian Galeazzo non erano mai state veramente applicate. L’anno seguente, durante una riunione al Broletto Nuovo con le autorità municipali, i Deputati della Malastalla (il grande carcere milanese per gli insolventi) propongono di "comprare l'isola del postribolo pubblico, et ivi fabricare le prigioni in loco et scontro di detta Malastalla". L’acquisto sarebbe stato fatto dai deputati del Luogo Pio che allo scopo avrebbero venduto il vecchio fabbricato delle carceri, essi chiedevano se era possibile ottenere un contributo dal Comune. Lo zampino del Borromeo nella faccenda è abbastanza evidente se si pensa che, mentre il Comune non tira fuori una lira, la Curia è subito pronta ad elargire una cospicua offerta perché l’operazione abbia luogo. I motivi dell’avversione verso il postribolo da parte della Curia sono parecchi:
- primo, purtroppo la prostituzione non sarà mai eliminata, ma in linea di principio non si può tollerare un “postribolo pubblico” (così come il Borromeo non avrebbe mai tollerato un “teatro pubblico”);
- secondo, l’isolato è vicinissimo alla sede dell’arcivescovado;
- terzo, è scandalosa una così grande concentrazione di prostitute in uno stesso luogo.
Quest’ultimo punto era molto chiaro al Borromeo che aveva appena ricevuto dal parroco di San Martino in Compito una lettera con queste desolanti parole: “ciò è nel postribolo gli è una chiesa sotto il nome di S. Giacomo... alla quale gli vanno le meretrici del detto postribolo quali per avanti solevano venire alla detta chiesa di S. Martino ... qual chiesa così sta molto male perché quando si celebra stanno le meretrici insieme con gli ascoltanti i quali per la maggior parte sono ruffiani et persone di mala qualità che ivi fanno mille chiassi et cose in honeste et saria bene a provederli"
La manovra avvolgente del Borromeo ha successo. Oltre a mettere in atto le numerose iniziative di prevenzione vede procedere le demolizioni delle case delle prostitute messe in atto dai Deputati della Malastalla. Queste demolizioni proseguono fino alla grande peste del 1576. A questa data le meretrici in loco sono però ancora 23 Finita la peste, nel 1578, il Capitano di Giustizia pensa di inserirsi nell’iniziativa e trasferire nell’isolato anche il proprio ufficio e le carceri. I lavori a questo punto diventano molto più imponenti e richiedono la demolizione della chiesa di San Giacomo e la costruzione del grande cortile, tuttora visibile nel palazzo dei Vigili. Sotto la direzione dell’architetto Pietro Antonio Barca, l’intero edificio viene costruito in vent’anni. Nel 1603 si apre la Strada Nuova davanti all’ingresso principale e il portale è terminato nel 1605 come ricorda la lapide che lo affianca.
Malgrado queste grandi trasformazioni, nell’isolato, nel lato più vicino alla contrada di San Martino, permane ancora un certo numero di prostitute. Ci pensa Federico Borromeo a completare l’opera con l’aiuto di alcune persone facoltose della zona, tra le quali spicca il nome dell’architetto Aurelio Trezzi. Questi benefettori, intorno al 1614-15, acquistano gli ultimi bordelli rimasti, li demoliscono ed edificano l’Oratorio di Santa Maria Immacolata che viene assegnato alle scuole della Dottrina Cristiana erette secondo i dettami del Bellarmino. Per questa ragione la nuova istituzione sarà sempre chiamata “Oratorio del Bellarmino”. L'Oratorio sarà a lungo il centro dell'attività catechistica della Curia finché, sconsacrato, non diventerà in epoca napoleonica il Teatro Fiando, e poi il Gerolamo per le marionette. Il gruppo di case dove si trovava l’Oratorio verrà infine demolito poco dopo l’unità d’Italia per creare Piazza Beccaria. Le prostitute, scacciate agli inizi del Seicento dalla zona, troveranno un accogliente asilo nella vicina contrada dei Soncini-Merati, dove resteranno fino alla legge Merlin con un discreto numero di case chiuse.
Intorno al 1530, passata la grande peste di Carlo V, in un momento in cui la città ha raggiunto il massimo del degrado economico e morale, alcune persone di buona volontà si rimboccano le maniche nel tentativo di ricucire gli strappi più vistosi di una società sconvolta e disastrata. Da Cremona arriva Ludovica Torelli della Guastalla, una ricca nobildonna che aveva venduto il suo feudo della Guastalla per una somma molto rilevante e che intendeva impiegare questi fondi in opere assistenziali a Milano. Per prima cosa la Torelli acquista delle case nei pressi del monastero di S. Ambrogio e vi raccoglie un primo nucleo di ragazze “pericolanti” perché rimaste orfane o abbandonate dalla famiglia. Poi si rivolge alle “traviate”, già avviate sulla via della prostituzione e cerca di costituire per loro un rifugio da dove potessero ricominciare una vita onesta. In pochi anni, sempre nei pressi di S. Ambrogio, in via Santa Valeria, si costituisce così la prima Casa o Ricovero per le convertite, che riceve il 7 novembre 1533 l’approvazione delle autorità pubbliche.
A questo primo esperimento ne segue poco dopo un secondo in Porta Ticinese. Grazie anche all’appoggio dei Barnabiti, la Torelli riesce a fondare, all’inizio degli anni ‘40, una casa per le “rimesse” del Crocefisso o di Santa Maria Egiziaca nell’attuale via Crocefisso volta a raccogliere le convertite della zona di Sant’Eufemia, pullulante di prostitute già da parecchi decenni. Altre iniziative si susseguono in questi anni. Sappiamo di convertite nella contrada della Maddalena e nella contrada della Sala verso le quali vengono erogati sussidi dai Luoghi Pii Elemosinieri della città. Nel 1555 Isabella de Cordova fonda la scuola della Madonna del Soccorso “per le peccatrici, le malmaritate e le vergini pericolanti”. A quest’ultima iniziativa partecipano le Orsoline, un nuovo ordine intento anch’esso alla salvaguardia delle ragazze come quello delle Angeliche fondato nel frattempo dalla Torelli.
Quando il Borromeo arriva a Milano, il problema delle ragazze a rischio, così com’era stato impostato dalla Torelli e dalle Orsoline, trova la sua piena approvazione. Si trattava di estenderlo anche alla famigerata zona del Pasquirolo già sotto tiro, come abbiamo visto, degli attacchi dell’Arcivescovo. La manovra con la quale, accanto alla demolizione del postribolo pubblico viene creata un’alternativa positiva alle prostitute della zona, dimostra tutta l’abilità organizzativa del Borromeo. Senza spendere una lira, San Carlo riesce a creare quell’istituto che sarà poi chiamato Deposito di San Zeno o di Santa Maria Maddalena.
La storia inizia nel settembre 1573 quando il mercante di lana Annibale Vistarino si trasferisce con la famiglia dalla parrocchia di S. Stefano in Borgogna nella contrada di San Zeno. La moglie del Vistarino, Giovanna Anguillara, donna già nota a Milano per le sue opere caritative, inizia ad occuparsi delle prostitute della zona. Sappiamo che, assieme all’amica Susanna Chiocca e al padre francescano Gerolamo da Corte, detto il Santagostino, la Vistarini usava recarsi nelle ore più pericolose (durante le feste, nel tardo pomeriggio) nel postribolo pubblico per esortare le prostitute ad abbandonare il loro mestiere. Questa attività dà i suoi frutti e ben presto nella casa della Vistarini vengono ospitate fino a 20 ragazze.
Le 771 donne accolte in quest’arco di tempo hanno un’età che va da 15 a 25 anni. I loro genitori fanno in genere lavori umili: sarti, tessitori, muratori, “velutari”, “prestinari”, “legnamari”, soldati, domestici. Molte delle loro famiglie sono immigrate di recente a Milano.
Le condizioni indicate all'atto del ricovero sono: 
1) deflorate (256 ragazze); sono ragazze violentate o deflorate con falsa promessa di matrimonio da parte di gente comune o anche di persone note (ad esempio il Cerano). Spesso i defloratori mantenevano le ragazze al Deposito o fornivano la dote. 
2) mal maritate (168 ragazze); donne che lasciavano la casa, anche temporaneamente, in seguito a violenti litigi; adultere; mogli di bigami o impotenti; separate. 
3) vergini (58 ragazze); orfane giovanissime. 
4) vedove (38 ragazze); persone prive di una famiglia propria. 
5) meretrici (28 ragazze). Spesso convertite da predicatori, molte però dopo un breve periodo tornavano al vecchio mestiere. 
Come abbiamo detto, le ricoverate si fermavano al Deposito solo per qualche mese. Molte venivano sistemate o riconsegnate alla famiglia, altre fuggivano non sopportando le ingiurie e le percosse che ricevevano nel deposito e soprattutto nelle famiglie dov'erano alloggiate. 
Alcune evasioni furono realizzate con l'aiuto di "bravi". La retta minima per le ricoverate era di 3 o 4 scudi al mese, chi pagava di più poteva essere esentata dal lavoro. Chi lavorava riceveva per sè un terzo del guadagno. 
Durante il breve soggiorno al Deposito si provvedeva alla loro futura sistemazione.
Dal libro sappiamo che le 771 ricoverate furono sistemate nel modo seguente: 
1) 241 ragazze riconsegnate alla famiglia o al marito; 
2) 136 ragazze messe a servizio. Lo stipendio massimo era di 3 lire al mese. 
3) 73 ragazze maritate. La dote minima per sposarsi era di 100 lire. 
4) 68 ragazze inviate ad altri Luoghi Pii. 
5) 66 ragazze riconsegnate ai protettori. 
6) 36 ragazze fuggite. 
7) 27 ragazze monacate. La dote richiesta dal Deposito era di 600 lire. 
Se il soggetto era troppo ostico veniva consegnato alle autorità dato che il Deposito, a differenza degli altri ricoveri, non aveva la prigione.
La struttura amministrativa del deposito è registrata nelle Regole del Deposito di San Zeno stampate nel 1593 da Pacifico Ponzio. 
Il Capitolo si riunisce ogni venerdì, vi partecipano anche due sacerdoti e un confessore, che tengono i contatti con la Curia. Spesso sono oblati. Le monache dovrebbero essere Orsoline, ma questo non risulta ufficialmente. Lo si può supporre dal fatto che la Vistarini e il Santagostino erano molto legati a quest'ordine religioso. E' probabile che molte monache fossero reclutate tra le stesse ricoverate. Non c'era una distinzione tra monache e converse. Alcune monache però appartenevano a famiglie rispettabili che sceglievano il Deposito perché costava poco. Queste ultime avevano molte probabilità di diventare madre priora. Nel 1593, anno in cui sono stampate le regole, nel Deposito c'erano 32 donne, di cui 12 monache e 20 assistite. La dote per accedere al ricovero come monache andava da 140 lire a 1000 lire, in media era sulle 600 lire, molto poco rispetto agli altri ricoveri.
Il Capitolo (il Consiglio d'Amministrazione dell'ente) è composto da non più di 12 persone ed elegge le cariche: priore, sottopriore, tesoriere e cancelliere (durata 1 anno), i provveditori (durata 6 mesi), i visitatori (durata un mese). I visitatori controllano e seguono la gestione delle madri. I provveditori curano i ricoveri (accettazione, destinazione). Il deposito deve tenere il "Libro dei memoriali" e il "Libro delli offiziali"
Il Capitolo si riunisce ogni venerdì, vi partecipano anche due sacerdoti e un confessore, che tengono i contatti con la Curia. Spesso sono oblati. Le monache dovrebbero essere Orsoline, ma questo non risulta ufficialmente. Lo si può supporre dal fatto che la Vistarini e il Santagostino erano molto legati a quest'ordine religioso. E' probabile che molte monache fossero reclutate tra le stesse ricoverate. Non c'era una distinzione tra monache e converse. Alcune monache però appartenevano a famiglie rispettabili che sceglievano il Deposito perché costava poco. Queste ultime avevano molte probabilità di diventare madre priora. Nel 1593, anno in cui sono stampate le regole, nel Deposito c'erano 32 donne, di cui 12 monache e 20 assistite. La dote per accedere al ricovero come monache andava da 140 lire a 1000 lire, in media era sulle 600 lire, molto poco rispetto agli altri ricoveri.
Il Deposito riscuote subito un notevole successo che si traduce in lasciti e donazioni, fonti di buone rendite. Nel 1594 gli vengono assegnate la casa parrocchiale di San Martino in Compito, la cappella di San Rocco e la chiesetta di S. Caterina e Stefano. Quest’ultima, sconsacrata, è venduta cinque anni dopo agli Origoni che la inglobano nella loro casa. La cappella di San Rocco verrà acquistata nel 1615 dal mercante Giovanni Giacomo Molina che la demolisce per consentire la costruzione dell’Oratorio del Bellarmino. Al Deposito arrivano anche considerevoli somme grazie a lasciti di ricche signore abitanti nella zona. Virginia Spinola lascia nel 1608 6000 lire, nel 1617 Angelica Casati lascia 1000 lire, ma sono numerosi anche i lasciti di minore entità.
Nel corso del Seicento e del Settecento l’Istituto continua a funzionare fino al suo declino. Nel 1775, quando viene aggregato al Conservatorio della Provvidenza, ha solo 5 ricoverate. Con le soppressioni di Giuseppe II, nel 1784, la chiesa viene sconsacrata e l’intero edificio diventa un alloggio per i soldati.


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