Se si percorre via Pantano e si imbocca via Albricci, si raggiunge piazza Missori da dove si può accedere ai resti dell’abside e alla cripta ipogea della basilica paleocristiana di San Giovanni ad concham. Costruita tra il V e il VI secolo, sorgeva in origine in una specie di conca, cioè in una depressione naturale del terreno causata dalla presenza di una zona acquitrinosa. In effetti, l’esistenza di un laghetto formato dal fiume Seveso in via Larga e di una darsena d’età augustea parallela alle mura romane sono avvalorate dal nome delle vie Laghetto, Poslaghetto (oggi scomparsa) e dal toponimo pantano assegnato all’omonima via. Riedificata in stile romanico tra XI e XIII secolo, a seguito delle devastazioni causate dal Barbarossa nel 1162, misurava 53 x 17 metri ed era dotata di un campanile alto 24 metri e di una cripta sotterranea.La chiesa era dedicata a S. Giovanni Evangelista che, durante la persecuzione dei cristiani da parte dell’imperatore Domiziano, sopravvisse al martirio uscendo illeso dal pentolone d’olio bollente dove era stato immerso. Alcune tradizioni popolari attribuiscono il salvataggio del santo ad un provvidenziale acquazzone che, raffreddando l’olio del calderone, contribuì a spegnere i “bollenti spiriti” dei sui persecutori. In analogia con questo episodio, sul sagrato della basilica si tenevano -in tempo di siccità- dei tridui di preghiera per invocare l’intercessione divina per la pioggia. I canti e le suppliche, improntate ai principi della magia omeopatica o imitativa, venivano accompagnati da libagioni rituali che servivano ad allontanare gli spettri della siccità, della carestia, della fame e delle pestilenze sempre in agguato. Nei pentoloni, issati sopra dei falò, venivano messe a bollire, al posto del martire, delle vivande con la speranze che canti, preci, aspersioni e spruzzate “brodolose” servissero ad evocare e a catalizzare le forze positive dell’universo trasformandole in pioggia.
Nel corso del XIV secolo, Bernabò Visconti (1323-1385) trasformò la chiesa in una cappella gentilizia integrandola nella propria dimora fortificata che sorgeva nei pressi dell’edificio religioso. Il palazzo era noto ai milanesi come Ca’ di Can per la passione di Bernabò nei confronti dei cani da caccia. Descritto dalle cronache dell’epoca come un tiranno crudele o come un signore generoso e munifico, Bernabò fece collocare il proprio monumento equestre -adattato dopo la sua morte ad arca funebre- dietro l’altare della chiesa. All’interno di San Giovanni in Conca vi era anche il sepolcro della moglie Beatrice Regina della Scala (1331-1384) cui si deve la costruzione della chiesa di Santa Maria alla Scala, demolita nella seconda metà del XVIII secolo per far posto al Nuovo Regio Ducal Teatro, più noto come Teatro alla Scala. I funerali di Bernabò vennero celebrati in modo solenne nel 1385 sotto l’attenta regia del nipote Gian Galeazzo (1351-1402) che, grazie ad uno stratagemma, lo aveva esautorato e rinchiuso nel castello di Trezzo sull’Adda dove morì avvelenato. Il suo monumento funebre, opera del maestro campionese Bonino, venne fatto spostare nel 1570 da Carlo Borromeo (1538-1584) in una navata laterale, mentre le sue spoglie mortali, seguite in un secondo tempo da quelle della consorte, furono traslate nel XIX secolo nella Chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia.
Nel 1782 la soppressione degli ordini religiosi contemplativi imposta da Giuseppe II d’Asburgo (1741-1790), portò allo scioglimento dell’ordine carmelitano che dal 1531, su concessione del duca Francesco II Sforza (1495-1535), si occupava della chiesa ora decorata in stile barocco. Pochi anni dopo, San Giovanni perse anche la dignità parrocchiale e sconsacrata dagli austriaci, chiuse i battenti in modo definitivo nel 1808 durante il dominio napoleonico. Spogliata dei mausolei viscontei, venne destinata ad usi civili e il campanile alto 42 metri eretto dai carmelitani adibito ad osservatorio meteorologico. Tra le fine del XIX e gli anni cinquanta del XX secolo, la basilica fu smantellata quasi integralmente per esigenze di viabilità: l’assetto urbanistico post-unitario prevedeva infatti il passaggio del nuovo tracciato viario dedicato a Carlo Alberto (oggi via Mazzini) proprio nell’area occupata dalla chiesa. Nel periodo compreso tra il 1879 e il 1884, furono abbattute le campate, la navata e il campanile (forse il più alto di Milano) mentre venne preservato il presbiterio. La facciata, divenuta neogotica grazie ai lavori di restauro diretti dall’architetto Angelo Colla (1827-1892), venne arretrata e adattata alle ridotte dimensioni del luogo di culto che venne ceduto alla comunità valdese. Nel 1949, a causa della ripresa dei lavori legati alla realizzazione della “Racchetta”, arteria viaria a scorrimento veloce che si arenò proprio davanti all’abside, i valdesi si trasferirono in via Francesco Sforza dove ricomposero la parte frontale dell’antica chiesa accostandola al prospetto del nuovo tempio evangelico riformato. Il resto dell’edificio religioso venne completamente demolito preservando la cripta ipogea romanica e una porzione dell’abside con monofora che ha contribuito ad attribuire ai ruderi il poco lusinghiero nomignolo di “ el dent cariaa”. Gli scavi archeologici effettuati nel 1881, al di sotto della navata centrale, hanno evidenziato il ritrovamento dei resti di una domus romana di età imperiale. La scoperta di una porzione di pavimento musivo policromo del III secolo d.C. che ritrae un felino intento a spiccare un balzo e la presenza di una cisterna alimentata da condutture di piombo, testimoniano l’agiatezza dei proprietari dell’abitazione. Nella cripta (dal greco krýptē, krýptein, nascondere) sono poi custoditi alcuni reperti di valore, tra cui un frammento di pavimentazione marmorea in opus sectile, un busto in marmo di un personaggio togato e quello di una nudità eroico-mitologica.Lo spazio all’interno della cripta è suddiviso in sette piccole navate con volte a crociera. Le colonne che le sorreggono, di svariata forma e misura, terminano con capitelli di diversa foggia. Su alcuni di questi ricorrono dei simboli esoterici o presunti tali: è possibile notare, infatti, i segni di quattro fiori della vita, di tre croci patenti di ipotetica derivazione templare e l’emblema del drago Tarantasio, il leggendario drago che dimorava nelle profondità del lago Gerundo Visitabile da martedì a domenica dalle ) alle 19,30
il giovedì dalle 9 alle 22,30
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