Milano, allora amministrata dagli spagnoli, fu duramente colpita nel 1630 da una terribile peste diffusa in gran parte del nord della penisola italiana, nota anche come peste manzoniana e che uccise quasi la metà della popolazione provocando la morte di circa 60 000 milanesi: in un clima che vedeva la popolazione allo stremo, aggravato dalla ampia diffusione di superstizioni popolari, una donna del quartiere denunciò Guglielmo Piazza accusandolo di essere un untore intento a diffondere il morbo mediante particolari unguenti procuratigli dal barbiere Gian Giacomo Mora e che egli avrebbe applicato alle porte di alcune case. Venne quindi imbastito un processo in cui i due malcapitati vennero accusati di essere untori: il procedimento, condizionato da un uso disinvolto della tortura secondo gli usi dell'epoca, terminò con la condanna a morte dei due che confessarono la propria inesistente colpevolezza pur di porre fine alle atroci sofferenze a loro causate dalle torture, peraltro contraddicendo più volte le loro stesse dichiarazioni.
La sentenza, oltre ad una condanna a morte da eseguirsi dopo vari supplizi da infliggere sfilando per le contrade della città, prevedeva l'abbattimento della casa-bottega di Gian Giacomo Mora; lo spazio vuoto venne occupato dalla colonna infame a memoria perpetua delle punizioni che sarebbero toccate a chi si fosse macchiato della colpa di essere un untore e come marchio di infamia indelebile per lo sventurato Mora.
Nella prima metà del XVIII secolo l'avversione verso i presunti untori era ancora viva e diffusa tra la popolazione.
Della colonna non sono giunte descrizioni dettagliate, ma nelle stampe è raffigurata con una palla posta sulla sommità.
La lapide che descrive gli avvenimenti e le pene inflitte ai colpevoli era originariamente posta su un muro a fianco della colonna ed è oggi conservata nei musei del castello Sforzesco.
«Qui dov'è questa piazza
sorgeva un tempo la barbieria
di Gian Giacomo Mora
il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità
e con altri
mentre la peste infieriva più atroce
sparsi qua e là mortiferi unguenti
molti trasse a cruda morte
Questi due adunque giudicati nemici della patria
il senato comandò
che sovra alto carro
martoriati prima con rovente tanaglia
e tronca la mano destra
si frangessero colla ruota
e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati
poscia abbruciati
e perché nulla resti d'uomini così scellerati
confiscati gli averi
si gettassero le ceneri nel fiume
A memoria perpetua di tale reato
questa casa officina del delitto
il Senato medesimo ordinò spianare
e giammai rialzarsi in futuro
ed erigere una colonna
che si appelli infame
Lungi adunque lungi da qui
buoni cittadini
che voi l'infelice infame suolo
non contamini
Il primo d'agosto MDCXXX.
(Il presidente della Pubblica Sanità, Marco Antonio Monti senatore)
(Il presidente dell'ecc. Senato, Giovanni Battista Trotti)
(Il R. Capitano della Giustizia, Giovanni Battista Visconti)
I nomi posti dopo la data, oggi non più presenti, furono trascritti in forme diverse da vari autori.
Filippo Argelati, in riferimento a Marco Antonio Monti, considerava una menzione d'onore (honorifica mentio) quella sulla lapide. Pietro Verri invece nelle Osservazioni sulla tortura riportò il testo solo fino alla data, omettendo i nomi, forse per non offendere le famiglie dei nominati, in parte ancora presenti a Milano.
Nella sua traduzione in lingua milanese della Gerusalemme Liberata del 1772, Domenico Balestrieri inserì in nota l'indicazione di una veramente compiuta dissertazione sulla colonna infame, letta dall'avvocato fiscale Fogliazzi durante una riunione dell'Accademia dei Trasformati, e riportò l'intera iscrizione della lapide; nel testo citò anche alcuni versi di un'opera di Giuseppe Parini.
Stando a una ricostruzione dello storico milanese Francesco Cusani, il Balestrieri donò copia della propria opera al barone Joseph Sperges, consigliere austriaco per gli affari italiani; nella lettera di ringraziamento il barone si dolse per la citazione della colonna infame, monumento di disonore per il Senato di Milano. Balestrieri in seguito mostrò la lettera al conte Firmian, governatore della Lombardia.
Successivamente, sempre secondo il Cusani, il governo cercò di far demolire la colonna, approfittando di una norma che vietava il restauro dei monumenti d'infamia: gli anziani della parrocchia fecero firmare agli abitanti delle case adiacenti una richiesta per l'abbattimento della colonna danneggiata dal tempo, ma il Senato rifiutò più volte quanto richiesto.
Nelle notti dell'agosto 1778 gli abitanti sentirono più volte colpire la base della colonna, che cadde nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1778 e "la palla che la sormontava rotolò giù pel vicolo dei Vetraschi". Alla fine di agosto i resti furono smantellati completamente e il 1º settembre ci fu un sopralluogo ufficiale.
Dopo l'eliminazione della colonna infame, il terreno venne acquistato e fu costruita un'abitazione.
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