
Sebbene sia spesso indicato come uno degli esempi più importanti dell'architettura barocca milanese, palazzo Litta è soggetto di studio di una bibliografia estremamente scarna, che non trova riscontro nella elevata considerazione che si rinviene nelle parole degli studiosi che nel corso dei secoli si sono occupati delle sue vicende. Spesso citato solo di passaggio negli itinerari di guide storiche più o meno recenti, più di rado trattato in uno spazio adeguato alla sua fama, questo edificio manca di un testo che sia in grado di chiarire le molte questioni ancora aperte che lo riguardano.
La storia costruttiva di palazzo Litta è strettamente legata alle vicende della famiglia Arese e dei suoi successori: sui vari passaggi di proprietà dell'edificio si sono espressi molti autori e in questo senso le notizie non mancano.
Committente dell'edificio fu Bartolomeo III Arese (1590-1674), personalità notevole dell'epoca, che rivestì importanti cariche nelle corti di Spagna e di Milano, tra le quali quella di presidente del Senato e quella di presidente della Magistratura Ordinaria. In particolare in relazione a quest'ultima carica Forcella riporta trascrizione del “salario et emolumento” dovuto ad Arese, ammontante a L. 13462.4: uno dei più elevati in riferimento a cariche istituzionali. Questi introiti andavano ad arricchire ulteriormente il già consistente patrimonio di famiglia, derivante in parte dal matrimonio con Lucrezia Omodei, il quale aveva consentito ad Arese di acquisire anche importanti alleati a Roma e Madrid. Tutto ciò spiega la possibilità e la necessità al contempo di affidare i lavori riguardanti la propria dimora ad un architetto "in voga" come Francesco Maria Richini, detto Ricchino.
A definire una possibile collocazione dell'avvio dei lavori da parte dell'architetto sono due richieste di utilizzazione del suolo pubblico effettuate dallo stesso Arese negli anni 1642 e 1646: secondo molti autori Ricchino sarebbe stato incaricato di realizzare un intervento di ampliamento di un edificio di modeste dimensioni preesistente, per adeguarlo come visto allo status del proprietario. I lavori sarebbero poi proseguiti (sotto la direzione di quale architetto - Ricchino muore nel 1658 - non è specificato in nessun testo) per una trentina di anni, fino a quando cioè, nel 1674, Bartolomeo Arese muore, causando, per ciò che ci interessa, l'interruzione dei lavori. Va notato che secondo quanto riporta Anselmi nella sua guida, l'interruzione fu probabilmente preceduta da un rallentamento dei lavori a causa del progressivo disinteressamento di Arese o forse per sue avverse fortune politiche. La prima ipotesi sembra però cadere considerando che tre anni prima di morire, nel 1671, Arese aveva istituito un fedecommesso contenente l'obbligo che il palazzo fosse abitato esclusivamente da un Visconti o da un suo erede, proibendo inoltre che l'edificio fosse affittato anche solamente in parte, a meno del pagamento di una penale di 4.000 scudi all'Ospedale Maggiore di Milano. Tuttavia gli eredi, grazie ad un accordo con quest'ultimo, dietro versamento di denaro, otterranno lo svincolo dall'obbligo per disporre liberamente del palazzo.
Bartolomeo Arese dunque muore nel 1674, e senza eredi maschi: le due figlie si accasarono rispettivamente con discendenti delle famiglie Visconti e Borromeo, da cui il passaggio di proprietà dell'edificio a quella che negli alberi genealogici appare come famiglia Visconti-Borromeo-Arese. L'ultimo discendente di questa linea, Giulio, così come il suo antenato Bartolomeo Arese, muore senza eredi maschi nel 1750 e trasmette i propri beni alle figlie Elisabetta e Paola, maritate con i marchesi Pompeo (figlio) e Antonio (padre) Litta, da cui l'origine della linea nota con il triplice cognome Litta-Visconti-Arese. Fu nel periodo a cavallo di questo avvicendamento, alla metà del XVIII secolo, che si registrarono due interventi (di paternità ed entità ancora incerte), realizzati da Bartolomeo Bolli e Carlo Giuseppe Merlo, con i quali si portò l'edificio a completamento dopo un periodo di stallo che, stando ai testi, durava ormai da sette decenni.
È in particolare il testo di Maria Luisa Gatti Perer ad occuparsi approfonditamente del non semplice compito di definire l'esatta collocazione cronologica degli eventi e di definire attribuzioni attendibili per i due architetti. Nella prima metà del Settecento vengono infatti realizzati due distinti progetti di ampliamento del palazzo, il primo dei quali risalente al dicembre 1738 e verosimilmente non andato a buon fine: un memoriale presentato in quel tempo al Consiglio Generale dal già citato conte Giulio Visconti Borromeo Arese contiene una richiesta di concessione di una porzione di strada pubblica per poter conferire simmetria alla facciata della propria residenza, richiesta che probabilmente non trova accoglimento. Ciò tuttavia non esclude, secondo Gatti Perer ed altri autori che ipotizzano un intervento più esteso rispetto al solo scalone da parte di Merlo, che siano stati attuati dei lavori all'interno dell'edificio, ammettendo in questo senso la possibilità che lo scalone d'onore sia stato realizzato prima della morte di Giulio Visconti. Tuttavia ciò, sempre secondo l'autrice, non può essere avvenuto alla data del 1738, avendo in quel momento il “P. Francesco Maria De Regi Barnabita professore di Matematica”, il matematico che scrisse di sua mano i calcoli relativi le strutture dello scalone, solamente diciotto anni. Ne deriva che la collocazione proposta da molti testi, per lo scalone, al 1740, va considerata come semplice ipotesi.
Un secondo progetto di ampliamento risalirebbe invece al 1752, quando i marchesi Litta inoltrano nuova richiesta di utilizzo di superficie pubblica per completare la propria residenza. La richiesta viene accettata e dunque presumibilmente a questa data iniziano i lavori per la facciata di stile rococò, terminata soltanto attorno al 1763 da Bartolomeo Bolli. Alcune notazioni conclusive sulla questione. Con questa collocazione cronologica degli interventi Gatti Perer si pone in conscio contrasto con Bianconi, contemporaneo degli eventi, che nella sua guida indica la costruzione dello scalone come posteriore a quella della facciata. Completamente da escludere invece l'attribuzione della facciata, come si rinviene in alcuni testi, a Giovanni Ruggeri, effettuata probabilmente sulla base di supposte consonanze stilistiche con altre sue opere.
Nel 1874, due secoli dopo la morte di Arese e poco più di un secolo dopo gli interventi di Bolli e Merlo, si registra l'ultimo passaggio di proprietà: il 27 gennaio il palazzo venne messo all'asta. Ad aggiudicarselo fu la Società per le Ferrovie dell'Alta Italia, per una cifra di L. 1.610.000 a fronte di una base d'asta di L. 2.338.000. Nel corso degli anni si ha quindi una serie di passaggi “interni” alla società ferroviaria, dapprima alla Rete Mediterranea e dal 1905 alle Ferrovie dello Stato, con l'insediamento della Direzione Compartimentale. Va notato che l'acquisizione dell'edificio da parte dell'ente ferroviario comportò una serie di trasformazioni per adattarlo alla nuova destinazione terziaria: purtroppo non è possibile sapere con esattezza quali interventi siano stati realizzati, in quanto a questo proposito le informazioni riportate dai testi si fanno ancora più frammentarie. Sicuramente il palazzo fu in parte modificato, con la realizzazione di alcune demolizioni riguardanti l'apparato decorativo degli ambienti interni, la completa riedificazione delle ali e delle corti interne, l'aggiunta delle due ali posteriori adibite ad uffici che occupano parte di quello che fu il noto giardino.
Qualche decennio dopo il passaggio alle Ferrovie, durante la Seconda guerra mondiale, l'edificio fu oggetto di bombardamenti che causarono ingenti danni: sebbene siano molti i testi che riportano questa notizia, è difficile conoscere con precisione l'entità dei danni registrati. L'attacco ebbe luogo la notte del 13 agosto 1943, con lancio di ordigni che provocarono l'incendio dell'edificio e, stando ai testi che più puntualmente si soffermano sulla notizia, interessando soprattutto la parte centrale dello stabile, il cortile d'onore e lo scalone di Merlo che fu quasi completamente distrutto per il crollo della volta soprastante. Non mancano anche in questo caso informazioni contrastanti, secondo le quali rimarrebbero invece intatti il cortile ricchiniano e le sale di rappresentanza del corpo centrale.
Comunque sia, la ricostruzione fu pressoché immediata, grazie al pronto interessamento del Ministero delle Comunicazioni, visto il ruolo cruciale dell'edificio: già nel 1944 l'impresa Jonghi-Lavarini, coadiuvata da ditte specializzate nella realizzazione di decorazioni, attuava un vero e proprio ripristino dello stabile sulla base di antichi disegni di studio realizzati dagli studenti dell'Accademia di Brera, in mancanza di copie di progetti o semplici fotografie negli archivi delle Ferrovie dello Stato. È in particolare il testo di Camusso e Tartaglia a soffermarsi sulle operazioni di ricostruzione, notando che "furono ricostruite le volte crollate, vennero ripulite le catene, sostituite quelle difettose, fu costruita una soletta in cemento armato sul riempimento delle volte rimaste, in modo che la volta non avesse altre sollecitazioni che quelle di portare il proprio peso" e che "la stessa soletta venne estesa anche alle volte ricostruite per dare a tutto il porticato una buona uniformità strutturale". Nel 1989 l'edificio fu sottoposto ad un ulteriore intervento di restauro, attraverso il quale è stato "sorprendentemente scoperto e restituito l'originale colore" al fronte dell'edificio: "un pallido carminio, del tutto inconsueto per Milano".
L'edificio si affaccia sul prospiciente corso Magenta, con il fronte progettato da Bartolomeo Bolli. Caratterizzato da alterna fortuna critica, questo si distingue per un corpo centrale avanzato, alto tre piani, scompartito da sei paraste semiribattute, d'ordine corinzio, in cinque campate. Le paraste, alte due piani, scendendo diventano pilastri, con inseriti i motivi di rettangoli smussati, ispirati forse alla vicina chiesa di San Nicolao. Ai lati si dispongono due corpi simmetrici alti due piani nei quali la caratterizzazione architettonica si fa più sobria. Il portale centrale è coperto da una balconata a pianta convessa, sostenuta da grosse mensole poggianti sulle spalle di due giganti, in linea con la vena manieristica milanese che discende dal palazzo degli Omenoni. Alla sommità del corpo aggettante, in corrispondenza delle tre campate centrali, al di sopra del cornicione a sguscio, in pietra e dotato di forte aggetto, si leva il fastigio ad attico mistilineo inquadrato da pilastri reggenti trofei, nel quale due statue di mori a tutto rilievo reggono lo stemma della famiglia Litta.
A proposito dell'apparato scultoreo della facciata va riportata un'ipotesi contenuta nel testo di Poli Vignolo, secondo la quale Bolli si sarebbe servito di scalpellini provenienti dalla fabbrica del Duomo di Milano: essendo Bolli impegnato in quel cantiere, essendoci inoltre noto (ma la fonte non viene riportata) che egli espresse parole di elogio nei confronti degli scalpellini Elia Vincenzo Buzzi, Carlo Domenico Pozzo, Giuseppe Perego, ed essendo infine i tre dichiarati momentaneamente disoccupati nei documenti del cantiere del Duomo nel periodo 1750-1755 si propone l'attribuzione del fastigio appunto ai tre scultori citati. Le finestre, a tutti i livelli, sono sormontate da ricche e bizzarre cimase curve, decorate con cartelle, conchiglie, festoni nei timpani; quelle del primo piano inoltre hanno in alcuni casi balconcini poco sporgenti a balaustri, sorretti da fregi a cartoccio, in altri appoggiano a parapetti con specchiature, mentre le finestre dell'ultimo livello, di altezza minore, hanno dei parapetti in ferro battuto. Una notazione conclusiva sulla facciata: Chierici nel suo testo riporta l'attribuzione degli elementi ai lati delle finestre sull'asse principale dell'edificio, definiti “pleonastici e di dubbio gusto”, ad un presunto e non specificato successore di Bolli.
Dalla strada, attraverso un ampio vestibolo, si accede al cortile, per il quale la maggior parte degli autori concorda sulla attribuzione a Ricchino, esprimendo un generale apprezzamento. In particolare vanno ricordate le posizioni di Portoghesi e Gatti Perer, secondo i quali dell'intervento del noto architetto, in conseguenze di più o meno desiderate trasformazioni, resterebbe appunto solamente questa porzione. Per completezza, anche se basata su constatazioni di carattere stilistico, va segnalata la posizione di Denti, secondo il quale Arese incaricò Ricchino di realizzare una serie di lavori concentrati attorno al cortile, e non riguardanti il cortile stesso, con l'erezione di vari corpi di fabbrica e locali interni: il cortile risulterebbe infatti troppo lontano dal linguaggio dell'architetto per essergli attribuito. Comunque sia, il cortile si dispone a pianta quadrata, circondato da porticati su tutti e quattro i lati, coperti con volte a botte ribassate e lunettate e retti da colonne doriche in granito binate su cui va ad impostarsi una trabeazione continua. In questa impostazione del cortile sarebbe evidente il riferimento ad altre architetture ricchiniane, il palazzo del Senato e il palazzo del Seminario. Al primo piano le finestre sono incorniciate con robusti elementi in pietra calcarea e sormontate da timpani alternatamente curvi e triangolari; al secondo piano le finestre sono invece caratterizzate da cimase composite formate da volute contrapposte. In sommità si imposta una massiccia cornice a forte aggetto, sostenuta da mensole e sottomensole a foglie d'acanto.
Attraverso un passaggio sulla sinistra è possibile accedere ad un cortile minore, detto dell'Orologio: questo si caratterizza per uno sfondo prospettico in rilievo leggermente concavo, su due piani, scompartiti da lesene, doriche al livello inferiore e ioniche a quello superiore; al di sopra della porzione centrale del fronte si leva il quadrante d'orologio incorniciato da alte cimase che dà il nome al cortile. Da questo spazio è possibile passare ad un ulteriore cortile, ancora più piccolo, detto dello scalone. Sul lato opposto del cortile d'onore è invece presente un passaggio attraverso il quale si accede ad una via privata che conduce direttamente al Foro Buonaparte.

Il piano nobile è forse l'elemento che più di tutti ha contribuito alla fama di palazzo Litta, non tanto perché possieda una sua intrinseca qualità, comunque riconosciuta da molti studiosi, quanto piuttosto perché è stato teatro di ricevimenti e feste che spesso, nella bibliografia dedicata all'edificio, trovano maggiore trattazione rispetto a questioni di maggiore interesse. Prima di proseguire con la descrizione degli ambienti è utile annotare che risulta estremamente difficile comprendere a quale epoca essi risalgano, in quanto la trattazione nei testi è sostanzialmente priva di informazioni in questo senso, probabilmente anche in conseguenza del fatto che questa ala dell'edificio fu la più danneggiata nel bombardamento del '43, per cui risulta problematico anche per gli studiosi ricostruirne l'esatta cronologia.

Sempre per quanto riguarda gli interni, probabilmente all'intervento di Ricchino dovrebbe risalire la cappella del piano terreno, accessibile dal già citato cortile dell'Orologio, fatta realizzare per celebrare la Messa in casa, per la quale Arese ottiene il permesso nel 1671. Essa verrà successivamente trasformata in teatro, tuttora funzionante. È noto poi che l'edificio ospitasse al proprio interno una galleria di quadri di “sommo pregio” ed una ricca biblioteca, contenente la nota raccolta Bianconi.

Palazzo Litta è visitabile durante eventi pubblici, mostre, proiezioni che si svolgono al suo interno, oppure nel corso di momenti particolari dell’anno come il Fuorisalone.
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